La spedizione Marchand in marcia |
LA GRANDE STORIA
IL RACCONTO DI UN ANTROPOLOGO APPASSIONATO, TRA VECCHIO E NUOVO MONDO
La spedizione Marchand in marcia |
LA GRANDE STORIA
Paolo Portoghesi 1986 (Archivio personale, Some rights reserved, indeciso42) |
La notizia della scomparsa del celebre architetto non può non rattristarmi.
Innanzitutto dal punto di vista umano.
Poi, come “protagonista assoluto
della scena culturale architettonica italiana e internazionale” (Valentina
Silvestrini, “È morto Paolo Portoghesi, l’architetto impegnato
a costruire un sistema culturale”, Artribune, 30 Maggio 2023).
Ieri sera mi sono improvvisamente ricordato che 42 anni fa, nel 1981, al rientro
dalla mia seconda ricerca in Sudan, avevo avuto il privilegio di incontrarlo nella
sede della Mefit Consulting Engineers (Portoghesi era il responsabile per
l’Architettura).
Perché proprio nell’immenso paese afro-arabo ero venuto a conoscenza delle molteplici
attività portate avanti là dalla Mefit.
Dopo aver accennato alla mia ricerca sudanese, Portoghesi mi “affiderà” ad uno dei diversi collaboratori intenti a lavorare attorno ad un lungo tavolo stracolmo di carte e mappe.
Il quale mi consegnerà un paio di grossi volumi, preziosi
per il mio lavoro su Malakal (Mefit, Regional Development Plan, vol. 2, Socio-Ethnographic Analysis, Rome, 1977 e Second Phase, vol.3, Patterns of Comsumption, Rome, 1978).
Risalendo il Nilo Bianco in piroga
Alla ricerca dei siti che hanno preceduto la
fondazione della città di Malakal: Tawfikyya, creata dal Baker nel 1870; il
forte del Sobat, costruito nel 1874 dal nostro Gessi, dietro ordine di Gordon
Pacha
Dal diario di campo: “E' il 9 gennaio del 1981. Sono a bordo di una lunga piroga monoxila sospinta da due esperti e robusti pagaiatori.
A poppa siede Chol, un Dinka.
A prua manovra il più giovane John, uno Shilluk,
figlio del fratello della madre Shilluk di Chol.
Io mi trovo esattamente al centro
dell'imbarcazione.
Sono attaccato per mezzo di una lunga corda, in modo
da non perderla, in caso di un sempre possibile rovesciamento dell'imbarcazione,
alla mia borsa impermeabile e galleggiante, che contiene alcuni documenti, un
po' di cibo e acqua e l'indispensabile attrezzatura fotografica.
Cerco di conservare una noiosa e difficile
posizione accucciata, in modo da non rimanere per lunghe ore a macerare
nell'acqua, sempre presente sul fondo.
Nell’occasione sono accompagnato da due dei miei
assistenti di ricerca, anche loro Shilluk.
Ho intenzione di arrivare fino all'imboccatura
con il fiume Sobat.
(…) i resti del forte del Sobat da tempo sono scomparsi.
Tra l'altro nell'area dove sorgeva il forte c’è oggi il quartiere generale della società francese, che sta costruendo il canale dello Jonglei, il più lungo canale artificiale del mondo.
Al tramonto raggiungiamo l’imboccatura del fiume Sobat, dopo ben undici ore pressoché ininterrotte di navigazione. Stupendo i tecnici francesi che, increduli, ci accolgono con viva simpatia".
IL CANALE
DELLO JONGLEI
Che nel 66 d.C. riuscì a bloccare i due centurioni romani, inviati dall'imperatore Nerone alla ricerca delle sorgenti del Grande Fiume.
L'escavazione del canale, tra la confluenza con il fiume Sobat, a nord, e
una zona situata poco prima della città di Bor, a sud, che doveva essere largo
52 metri e profondo 4, avrebbe portato un notevole beneficio alla
navigazione. Riducendo il percorso di circa 300 Km.
Con il canale dello Jonglei il Nilo avrebbe raggiunto una portata di 43
milioni di mc al giorno, rispetto ai 20 milioni attuali.
Il progetto fu ideato proprio dalla MEFIT italiana.
Tecnicamente ed operativamente l’esecuzione era stata affidata alla CCI (Compagnie de Constructiones Internationales).
Le distese paludose del sudd e il tracciato del Canale (Some rights reserved, Soleincitta) |
LA VISITA AI LAVORI DELLO JONGLEI
Dal diario di campo: “uno dei tecnici della CCI gentilmente mi conduce a vedere lo stato dei lavori. A Malakal ho già un rollino con le diapositive scattate dall’alto di un elicottero, utilizzando la mia Nikon, sia sulla città, che sopra il canale. Infatti i due piloti stanno conducendo nell’area indagini petrolifere
per conto della Chevron [per questo ringrazio
la mia compagna, che a Roma lavora per la società americana…]. Parliamo della diffusa presenza dei leoni in quei paraggi, ma ad est del
canale ci imbattiamo solo in uno struzzo. Ad una media superiore ai cento Km l'ora, percorriamo la pista in terra
battuta (una delle due sponde del canale), che al tempo della stagione delle
piogge sarà estremamente pericolosa. Fino ad oggi [gennaio 1981] sono stati scavati 45 Km, ad
una media di 25 metri al giorno, grazie ad una possente e mastodontica
escavatrice precedentemente utilizzata in Pakistan. La fotografo”. La gigantesca scavatrice nel 2006 (United States Agency for International Development) Già preannunciato da episodi di sequestro di personale tecnico e operaio, il brusco aggravamento delle condizioni locali, a causa della recrudescenza della guerriglia nel sud Sudan, nel 1983 provocherà l'imprevista fine dei lavori di una grandiosa opera, che doveva essere ultimata nel 1985/86. N.B. Il blog è dotato di Google Traduttore e di un motore di ricerca interno |
Boscimani (San) della Namibia, 2017 (CC Some rights reserved, Rüdiger Wenzel) |
IN OCCIDENTE E NEL TERZO MONDO
Come ben sappiamo, il rapporto che da secoli si è instaurato nel mondo euro-occidentale tra natura e cultura, tra l'ambiente e l'uomo, è stato solo di tipo conflittuale: dominazione, sfruttamento, consumo, rapina, sia concretamente, nei fatti, sia negli atteggiamenti culturali (ideali, mentali). Come antropologo non posso che concordare con quello che altri: ecologi, geografi, sociologi, economisti, filosofi, storici, hanno già, e da tempo, individuato come un assioma storicamente determinatosi. Il mio compito adesso è quello di dare voce anche alle culture "altre", cioè ai popoli e alle culture del Terzo Mondo, per vedere più da vicino quello che risulta essere anche il loro rapporto uomo-natura. In proposito va premesso quanto segue: in un mondo superdegradato e in preda a mille angosce e paure esistenziali, qual è il nostro, non possiamo ritenere che i popoli "diversi da noi" (cacciatori-raccoglitori, coltivatori e nomadi pastori) abbiano un rapporto di tipo idilliaco con la natura. Da molte parti e da diverso tempo stiamo assistendo ad una sorta di rinascita del mito del bon sauvage, quasi sempre connesso e mirato, oggidì, all'ambiente che lo circonda. Altre volte, come nel caso dell'indio amazzonico, in toto. Alcune osservazioni sono perciò d'obbligo e successivamente, parlando delle problematiche ambientali, saranno riprese e ulteriormente puntualizzate.
I
"nuovi" miti attraverso le lenti dell'Occidente
Non credo che sia il caso di mitizzare il rapporto uomo-natura, esistente tra i cosiddetti "primitivi", come in altre epoche si è idealizzato lo stesso "selvaggio". Molto semplicemente si può affermare come l'uomo, sempre e dovunque, abbia visto il contesto ambientale come un contenitore da sfruttare, onde poter sopravvivere. Ma ci sono delle differenze in questo, alcune fondamentali, altre d'importanza secondaria. Vediamo ora quali siano. Raggruppando i gruppi a "tecnologia semplice", secondo la classica tassonomia, che si basa sull'attività economica perseguita: cacciatori-raccoglitori, coltivatori, allevatori.
Il
rapporto natura-cultura presso i popoli cacciatori raccoglitori
"Il mio cuore è tutto felice, il mio cuore si gonfia nel cantare, sotto gli alberi della foresta, la foresta che è la nostra casa e la nostra madre" (canto dei pigmei Mbuti dell'Ituri, Zaire ( da TURNBULL C.M. 1978, Man in Africa, London: Pelican Books)
"La foresta è un padre ed una madre per noi e come un padre ed una madre ci dà ogni cosa di cui necessitiamo - cibo, vestiti, riparo, tepore... e affetto. Normalmente ogni cosa va bene, perché la foresta è buona con i suoi figli, ma quando le cose vanno male ci deve essere una spiegazione" (detto da: Moke, pigmeo Mbuti) (da: TURNBULL C.M. 1977 (1972), Il popolo della montagna)
Paul Schebesta con due uomini Mbuti- World Museum Vienna, Austria - CC BY-NC-SA. |
https://www.europeana.eu/item/15504/VF_62288
Le bande - o gruppi con un massimo numerico di individui tale da consentire lo sfruttamento ottimale dell'ambiente circostante - di cacciatori-raccoglitori, sparse in diverse aree del pianeta, esercitano un'attività economica, che è di tipo acquisitivo puro e semplice. Cioè, come potremmo dire noi occidentali, non produttivo ma parassitario. Esse utilizzano ciò che si trova nell'ambiente: radici e tuberi, frutti spontanei e vermi, insetti, miele selvatico e selvaggina. In una parola tutto ciò che è commestibile. Altre volte si aggiungerà, praticata nelle radure delle foreste, anche un tipo di orticoltura semi-spontanea. Il rapporto natura-cultura tra questi popoli (indios amazzonici, boscimani del Kalahari, aborigeni australiani, eschimesi (Inuit), pigmei asiatici e africani, ecc.) potrebbe essere definito di tipo armonico, anche se certamente non è idilliaco. Come ben sanno gli etno-antropologi, in particolare coloro che hanno direttamente studiato e perciò hanno condiviso, per un periodo della loro vita, il ritmo esistenziale di queste popolazioni, tra le mille difficoltà di ogni giorno: nella caccia, nel reperimento dell'acqua da bere, nei lunghi, pericolosi e faticosi spostamenti, ecc....
Ho detto che si prende ciò che si trova e per farlo bisogna sapere dove, come, quando, e che cosa poter prendere... Questi gruppi umani hanno una conoscenza del territorio, delle piante e degli animali, estremamente particolareggiata. Qui etnoscienza ed etnomedicina sono assai sviluppate.
"Hii
saa Brii Mau-Yaang Gôo", "abbiamo mangiato la foresta della pietra
genio Gôo"(...) indica a Sar Luk [villaggio Mnong di Yoo Sar Luk, Vietnam]
l'anno 1949, o più esattamente l'anno agricolo che va dalla fine di novembre
del 1948 ai primi di dicembre del 1949 (...)
Divora, o Fuoco fino al midollo, divora le foglie fino all'anima. Io imito l'Antenato di un tempo, imito la madre di ieri, imito l'Avo di altri tempi. Mi hanno insegnato a soffiare il fuoco dei Rnut: così io soffio. Il fuoco dei Rnoh mi è stato insegnato ad accendere, così io lo accendo (...) Io taglio il figlio della Pianura, ad imitazione degli Antenati; abbatto il figlio dell'Albero, ad imitazione degli Antenati; dissodo la foresta e la boscaglia ad imitazione degli Antenati"
(da CONDOMINAS G. 1960, Abbiamo mangiato la foresta, Milano: Baldini e Castoldi)
Villaggio Mnong, Vietnam, 2016 (CC, Some rights reserved, Clover9527) |
Il legame che si instaura con la natura è però mitigato da molti fattori culturali: gestione comunitaria dell'attività coltivatrice, dettata dal possesso (e non dalla proprietà) degli appezzamenti dei terreni.
La terra presso questi popoli è la "Madre Terra". Cioè là dove sono sepolti gli antenati e dove torneranno gli individui di tutte le generazioni, presenti e future. È sempre la Terra che darà, anno dopo anno, i buoni frutti dei raccolti.
La terra, a causa di questa sua "doppia" sacralità: la terra che sfama i vivi e che accoglie nelle sue braccia i defunti, appartiene di norma alla comunità, all'intera comunità. Solo il possesso rimane agli individui per l'uso esclusivo della coltivazione.
Quando la cooperazione internazionale ebbe l'idea di creare nei PVS (paesi in via di sviluppo) [in seguito saranno anche definiti in "via di sottosviluppo"…!], il sistema cooperativistico, allo scopo di sfruttare più efficacemente i terreni agricoli secondo il punto di vista europeo, non ha fatto altro che sfondare una porta già completamente aperta. Da sempre!
Albert Abril in Amazzonia con una famiglia Zo'è, 2007 (CC, Some rights reserved: Albert Abril) |
Due donne della tribù Zo'é dello Stato brasiliano del Pará, 2013 (CC Some rights reserved: Danielzsilva) ... |
Facendo ulteriori ricerche sul Web, sia su Abril (su Wikipedia figura anche come April...), che su questo gruppo etnico, mi sono imbattuto su un articolo pubblicato a gennaio. Il suo titolo, ma soprattutto l'immagine d'apertura del "pezzo", mi suonava invece molto famigliare... Perchè il fatto mi aveva allora commosso! Anche i nostri telegiornali l'avevano riportato. Certo non sapevo, allora, come i due indios visti in televisione appartenessero proprio all'etnia Zo'é.
Il loro è stato uno straordinario caso di amore filiale: Tawy ha infatti portato sulle spalle, per farlo vaccinare contro il Sars Cov 2, il padre sessantasettenne Wahu. Impossibilitato a camminare, a causa della sua artrosi alle ginocchia. Attraversando la giungla, guadando fiumi, salendo sulle colline. Un tragitto durato, tra andata e ritorno, ben dodici ore,
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È stata invece l'introduzione, ai tempi del colonialismo, di un sistema economico basato sul mercato e sulla moneta, e quindi anche sulla proprietà individuale, sull'imposizione delle tasse e sull'enorme diffusione della monocoltura, utile al mercato metropolitano, a creare una falla, tuttora aperta, in molte aree del mondo, che solo l'"innovatrice" idea delle cooperative ha contribuito, in qualche modo, a tamponare. Ritornando, sia pure in parte, alle antiche, tradizionali concezioni della terra comunitaria.
Ho sostenuto come questi popoli abbiano un rapporto conflittuale con l'ambiente, anche se le tecnologie tradizionalmente impiegate, nei tempi tradizionali (a parte i diboscamenti, che oggi non sono cosa da poco), in realtà non recano gravi danni all'ambiente.
Si può altresì affermare come i gruppi umani dediti alla coltivazione facciano ricorso alle istituzioni magico-religiose al fine di instaurare idealmente e ritualmente, cioè culturalmente, un rapporto diverso, in fondo più rispettoso dell'ambiente. Le rappresentazioni individuali e collettive dei coltivatori, nonché gli elementi magico-religiosi da essi "attivati", denotano, quindi, una forma rispettosa della natura.
In conclusione, se da un lato l'ambiente viene forzato con tagli, incendi, diboscamenti, dissodamenti, ecc., dall'altro la cultura cerca di porre idealmente riparo alle "ferite" inferte. Utilizzando altri strumenti, non tecnologici, ma cultuali, rituali. Facenti sempre parte della medesima cultura alla quale appartengono singoli individui e gruppi.
Il
rapporto natura-cultura: presso i popoli nomadi "puri" e transumanti
"Ring Giir, Il Grande Biancofiore, Mio padre Ring, fu chiamato da suo padre. Egli lo fece sedere al suo fianco, lo carezzò e gli disse queste parole: "Figlio, Ring, là c'è il bestiame, O figlio, il bestiame è la prosperità dell'uomo. Mio Nonno aveva un wut (cattle camp), il suo campo divenne ricco di mandrie e di uomini, le stelle si riempirono di vacche..." (canto dei Ngok Dinka, Sud Sudan)
(da: DENG F.M. 1971, Tradition and Modernization. A Challenge for Law among the Dinka of the Sudan, New Haven and London: Yale University Press)
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Nel marzo del 1979 a Khartoum ero in attesa di recarmi nella cittadina meridionale di Malakal, ad 850 km più a sud. Dapprima attraversando il deserto in jeep per un’intera giornata, poi risalendo il leggendario Nilo Bianco, a bordo di un vetusto battello a pale posteriori, per quattro fantastici giorni.
Tra i miei numerosi impegni e incontri programmati a Roma (Ambasciata, Alitalia, Agip, Università, Missionari), era previsto che incontrassi, per via protocollare, il Ministro di Stato per gli Affari Esteri Sudanese nel suo Ufficio. Grazie all’interessamento, sia dell’Ambasciata del Sudan a Roma, che di quella italiana a Khartoum. Non per un fatto meramente elitario o snobistico. Ma perché il Ministro, oltre ad essere lui stesso un antropologo, era il massimo interprete del popolo dei Dinka, al quale appartiene. Suo padre, Majok Deng, era il Paramount Chief dei Ngok Dinka del Kordofan.
Ma Francis Mading Deng (1938- ), autore del libro da me sopra citato, era ed è stato molto più di un antropologo. Perché è stato un diplomatico (Ambasciatore del Sudan in Canada, Stati Uniti, Danimarca, Finlandia, Norvegia, Svezia), uno scrittore, un politico e, dal 2012 al 2016, primo Ambasciatore del Sud Sudan (indipendente dal 2011) all’ONU. Ha studiato e si è laureato in diverse Università. Come quella di Khartoum, Yale (USA), il King’s College e la School of Oriental and African Studies di Londra. Infine ha scritto oltre una trentina di libri: giuridici, sui diritti umani, di antropologia e folklore, storici, politici. Nel 1979 in suo cursus honorum era già abbastanza ricco. Certo non come oggi…
Interessato al mio precedente studio sulla
cittadina kenyota di Isiolo, fu prodigo di consigli su Malakal. Altra cittadina
multietnica e multiculturale. Dove convivevano, allora pacificamente, le genti
del Sud, come i Nilotici allevatori Dinka, Nuer, Shilluk, Anuak, ma
anche i Nuba del Kordofan. Oltre agli arabi (od arabizzati) del Nord.
...
Uomini Dinka con lance, collane e bracciali, Kodok, Sud Sudan |
Eric von Rosen (1879-1948) è un personaggio a dir poco singolare. Infatti è un ricco conte. Possiede il castello di Rockelstad (XIV secolo). È pilota d'aereo. Sarà addirittura il futuro cognato di Göring. Ma è anche un esploratore ed etnografo. Dopo aver effettuato nel 1900 una spedizione in Lapponia, partecipa alla Spedizione Svedese Chaco-Cordillera, 1901-1902: Argentina-Bolivia) diretta da Erland Nils Herbert Nordenskjöld, figlio del grande esploratore artico Nils Adolf Erik Nordenskjöld, Missione che riceverà anche il suo prezioso patrocinio. Nel 1909 effettua un’altra spedizione dal Capo ad Alessandria, marciando quasi sempre a piedi. La foto si riferisce invece a quella organizzata nel 1911-12, per studiare i poco conosciuti pigmoidi Batwa nei pressi del lago Bangweolo, al confine con il Tanganyika (oggi Tanzania).
Ragazza Dinka, ca. 1877-1880, di Richard Buchta (Pitt Rivers Museum, Oxford) |
Quello che è stato detto per i coltivatori, può essere esteso ai gruppi umani che si dedicano ad un'economia di allevamento. Essi sfruttano i prodotti forniti dagli animali (latte, sangue, sterco) e gli animali stessi, sia morti (carni e pelli) che vivi (trasporto), e utilizzano i territori percorsi: stagionalmente (transumanza), ciclicamente (pastorizia seminomade) o semplicemente "itinerante" (pastorizia nomade), per sfruttare fino in fondo tutte le possibilità di pascolo ivi localizzate.
Anche presso questi popoli ci sono meccanismi culturali autogiustificativi e discolpanti del proprio comportamento nei confronti della natura, che fanno sì che essi vengano ritualmente attivati (medianti sacrifici et alia), allo scopo di rimanere, sia pure idealmente e, quindi, culturalmente, in armonia con l'ambiente e con il mondo animale e vegetale, che dà loro modo di sopravvivere.
In conclusione
I tre "tradizionali" approcci dei popoli "altri" all'ambiente ci mostrano un rapporto e un'interazione che non è mai di totale sfruttamento, nel concreto e idealmente. Nei confronti della natura non esiste una mentalità, un atteggiamento che è sempre e solo di competizione, di rapina, di mero sfruttamento.
Se da una parte si acquisiscono i prodotti del sottobosco, del bosco, delle steppe semi-desertiche e del deserto - sabbioso, roccioso, ghiacciato - (animali, vegetali), dall'altra si raccolgono i prodotti della coltivazione e dell'allevamento.
Nel primo caso la relazione con la natura è di rispetto, sia concreto, che "ideale", mentre negli altri due esiste una qualche discrasia tra l'agire concreto (negativo) e ideale (positivo). Il rispetto è solamente ideale.
Il Lanternari dedicò un interessante e corposo studio alle feste cosiddette di Capodanno presso i popoli cacciatori, pastori e coltivatori. Esse mostrano chiaramente quanti e quali siano, e in quali occasioni vengano attivati, gli strumenti culturali e rituali delle varie popolazioni. Ne discende che il rapporto uomo-natura e cultura-natura, spesso anche conflittuale, trova sempre una sua catartica armonizzazione, grazie alla ricomposizione di ogni "pedina" nell'ampio alveo della tradizione e della cultura (LANTERNARI V. 1976 (1959), La grande festa. Vita rituale e sistemi di produzione nelle società tradizionali, Bari: Dedalo Libri).
Da: "UOMINI, GENTI E CULTURE DEL "VILLAGGIO GLOBALE". UNA LETTURA ANTROPOLOGICA DELL'AMBIENTE". La versione integrale è reperibile su:
61 personaggi, oltre ad una spedizione antropologica intercontinentale, svoltasi tra America del Nord e Asia a cavallo tra il secolo XIX e XX, figurano nella mia trilogia: LE GRANDI AVVENTURE DELL’ANTROPOLOGIA (Antropologi culturali, sociali, fisici, applicati, etnologi, etnografi, etnomusicologi, etnostorici)
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L'edificio del Museo Africano, Roma. Già sede dell' Istituto Italiano per l'Africa , poi diventato Istituto Italo-Africano, in...