Naturalmente la mia agenda, in occasione di quel primissimo approccio con la realtà culturale "altra" di New York e degli USA in toto (Washington rappresentò l'altra, obbligata, tappa del viaggio verso la Mesoamerica), sarebbe stata febbrile. Stracolma, com'era, di impegni, visite, contatti. Cosa che del resto si ripeté ogni volta che ritornai in America.
Emozionante e densa di aspettative per l'antropologo sarebbe stata,
non solo la completa immersione nella realtà culturale americana e,
particolarmente, in quella della sua megalopoli. Ma anche in ciò che avrei potuto provare nei confronti di alcune eccezionali istituzioni culturali. Come
nel caso del celeberrimo Museo Americano di Storia Naturale. Sito nell'Uptown (la "città alta" di
Manhattan), all'incrocio tra la 79^ Strada e Central Park West, cioè a sinistra
del Central Park, all'altezza del Metropolitan, l'altra grande istituzione nuovayorchese.
E' un complesso di edifici dall'aspetto fiabesco con le sue alte torri, che gli americani usano chiamare ben più semplicemente American Museum. Del resto anche per i francesi il Museo di Storia Naturale di Parigi è il Muséum per eccellenza...
Il Museo di Storia Naturale ha raggiunto oggi i 153 anni di vita. Venne fondato nel 1869 per l'avanzamento degli studi e l'insegnamento delle scienze naturali. Dal 1871 al 1877 fu ospitato nei locali dell'Arsenale, esistente allora a Central Park.
Nel 1874 il Presidente Grant
posò la prima pietra di un nuovo edificio, in una zona paludosa, disseminata di
fattorie e squallide bidonvilles,
raggiungibile comunque con le diligenze. Harlem era allora solo un modesto
insediamento localizzato più a nord.
Una scalinata mi condusse all'interno, passando attraverso
un Arco Romano e il Memoriale a Theodore Roosevelt, aggiunto successivamente
all'originario nucleo centro-meridionale del Museo, in stile vittoriano-gotico,
1877. Un primo ampliamento è del 1892. Altri seguiranno a partire dal 1900,
fino a tempi a noi più vicini.
Il Museo nel 1917 |
Lo spazio espositivo è gestito secondo criteri che hanno esemplarmente anticipato la moderna attenzione nei confronti dell'ecologia. Dando spazio nelle sue immense sale, attraverso diorami a grandezza naturale e singoli reperti, alle scienze naturali (zoologia, botanica, ecc.) e a quelle umane (pregevole materiale archeologico ed etno-antropologico raccolto in quasi tutto il mondo).
Complessivamente il museo detiene oltre 23 milioni di reperti, non tutti ovviamente esposti. Acquisiti sia sul campo, che grazie a doni, scambi, acquisti.
Ecco, quindi, la Storia della Terra, la Vita degli Oceani (dove è esposto il Coelecantus, un pesce dell'Oceano Indiano, per tanto tempo ritenuto estinto), i Rettili e gli Anfibi, i Meteoriti, Gemme e Minerali. Ed ancora: due Sale dei Dinosauri con scheletri di oltre 150 milioni di anni e uova con l'embrione di Protoceratops ritrovato nel 1923, nella Mongolia cinese.
Allosaurus, Brontosaurus, Stegosaurus e Tyrannosaurus sono autentiche stars, da sempre le più gettonate del Museo, da parte di visitatori adulti e bambini.
Ecco le sale degli
Uccelli (nord-americani, oceanici),
dei Mammiferi (africani, asiatici,
nord-americani, ecc.), quindi un Planetarium. Poi quelle dei Popoli Africani, seguiti dalla Biodiversità e dal Cambiamento del Clima. Ed ancora: Sud America, Messico e America Centrale, Indiani
d'America (Nord-Ovest, delle Pianure e dei Boschi). Infine gli Eschimesi completano l'esposizione.
Furono i Musei americani, non le Università, per un lunghissimo periodo - ma ancora oggi - a dare un notevolissimo impulso alla ricerca nei più diversi campi dello scibile. Così fu anche il caso del Museo Americano, dove troviamo numerosi Dipartimenti: Etologia, Antropologia, Erpetologia, Mineralogia, ecc.
Una prima spedizione esplorativa alla ricerca dei bisonti fu organizzata nel 1887 nelle Badlands del Montana.
Imponente fu la missione dell'Andrews del 1923 nel deserto di Gobi. Furono percorse 2.200 miglia di distese inesplorate e scoperte uova di dinosauro.
Asia, Artico, Pacifico
meridionale e Africa sono state le mete preferite dagli studiosi associati al
Museo.
L'esploratore e naturalista statunitense Roy Chapman Andrews (1884-1960) in Mongolia ca. 1920 |
Un paio mi servirono per riprendere due stipiti decorati della porta di un tempio Maya. Conoscendone la loro storia avventurosa, ma anche curiosa, erano infatti particolarmente importanti. Tanto più che di lì a poco nello Yucatàn avrei anche visitato alcuni celebri siti archeologici: Chichen Itza, Uxmal, Kabah. E, successivamente, quello stupendo gioiello urbano strappato all'intrico delle giungle del Chiapas, che è Palenque.
Le stipiti, costituite da lastre di pietra calcarea, alte un metro e ottanta e spesse 60 cm, sono scolpite in bassorilievo e rappresentano una figura umana inginocchiata, uno schiavo, che regge una maschera davanti ad un sacerdote-guerriero, con il capo avvolto in uno splendido ornamento di piume di quetzal.
I reperti Maya, risalenti al IX secolo, furono ritrovati a Kabah nel corso della seconda spedizione di Stephens e Catherwood. Furono loro che tra il 1839 e il 1843 scopriranno ben 44 siti archeologici immersi nella foresta, tra Messico e America Centrale, risalenti a quell'antica civiltà.
"Tolsero dalla nicchia della facciata del palazzo i due monoliti, pesanti ciascuno due quintali e mezzo, li avvolsero in un involucro protettivo d'erba e paglia e li prepararono per l'imbarco (...) Squadre di indiani che si davano il cambio lungo il percorso riuscirono a trasportarli fino alla costa, adagiati sopra un lungo tronco d'albero cui erano assicurati mediante robuste liane".
Queste sculture dovevano essere esposte nella "Rotonda" di Catherwood a New York. Che nel frattempo era stata distrutta da un incendio, assieme a tutto il materiale archeologico raccolto in precedenza.
Stephens, suo malgrado, fu costretto a consegnarle ad un amico, che le incastonò in un muro della sua tenuta di campagna, sulle sponde del fiume Hudson.
Nel 1884 le sculture vennero "riscoperte" dal viaggiatore svedese Bremer. Nel 1918 Sylvanus Morley, celebre specialista dei Maya, dopo essere venuto a conoscenza della loro esistenza grazie alla lettura del libro di viaggi di Bremer, andò sul posto a vedere quel "muro". Rendendosi subito conto della loro estrema importanza!
Nel 1919 il Museo acquisterà i due stipiti per l'astronomica cifra di diecimila dollari. Andranno a costituire il nucleo iniziale di una collezione d'arte Maya. Oggi visibile nella sala 2.4 (Mexico and Central America), dove li rintracciai e fotografai.
Come per altri musei del mondo, anche la filosofia espositiva dell'American Museum si basa su mostre temporanee, legate a tematiche, aree o eventi di particolare interesse e significato. Come nel caso della mostra fotografica (Aprile - Ottobre 1999) sulla "Leggendaria Spedizione Antartica di Shackleton" del 1914, nella quale il pubblico potè osservare 150 fotografie, molte delle quali esposte per la prima volta. Oltre ad estratti del diario e a reperti della spedizione. Tra cui una barca di salvataggio "speciale", la James Caird, oggi visibile nel Dulwich College (Londra).
Si mette in acqua la James Caird dalla riva di Elephant
Island, 24 aprile 1916 (da Ernest Shackleton, South, Londra 1919)
Fu infatti grazie ad essa che Shackleton riuscì a raggiungere una stazione baleniera sita nella lontana Georgia del Sud, dopo un tremendo viaggio di 800 miglia nell'Oceano. Qui organizzò i soccorsi per salvare tutti i membri del suo equipaggio, che era ancora rimasto a bordo della nave Endurance, per dieci mesi bloccata dai ghiacci della banchisa. L'intenzione originaria dello Shackleton, prima della sua disavventura, era quella di compiere la traversata del Polo Sud.
Giacca di pelle di taglio europeo con perline. Sono raffigurati indiani a cavallo, le cui code sono legate, in vista di una battaglia. Indiani Lakota, ca 1890 (© Franco Pelliccioni) |
Tornando a parlare delle ricerche che fanno capo al Dipartimento di Antropologia, sapevo come per un lungo periodo di tempo fosse stata sua Curatrice quella che, al tempo della mia prima visita, era considerata la più grande antropologa contemporanea, Margaret Mead.
Nel 1926 la Mead era già aiuto conservatore di etnologia. Un personaggio straordinario, che per molti anni costituì il simbolo vivente e di riferimento culturale per moltissimi: come donna anticonformista, moglie, affettuosa madre, nonna, insigne scienziata, grandissima divulgatrice. Forse quest'ultimo è stato il suo più grande merito: "penso che la cosa più importante che ho fatto sia stata quella di avvicinare l'antropologia al pubblico più largo, di media cultura. La gente agli inizi non capiva assolutamente che cosa gli antropologi facessero, o perché andassero a studiare quegli strani popoli dall'altra parte del mondo". Essa ha saputo insinuare nella coscienza americana il suo messaggio contro il razzismo e l'etnocentrismo.
E mosse i suoi primi passi
scientifici proprio grazie agli impulsi, di teoria e di metodo, ricevuti dal
Museo. Con ricerche sul campo in Polinesia (Samoa, 1925-26), Melanesia (Isole
dell'Ammiragliato, 1928; Nuova Guinea - Arapesh, cannibali Mundugumor,
Ciambuli, 1931-1933), Pellerossa Omaha (Nebraska, 1930), Bali (1936-38), ancora
in Nuova Guinea (Iatmul,1939).
Molti sarebbero stati ancora gli studiosi che legarono la loro attività di ricerca e di studio al Museo. Come lo Wissler, prima conservatore e poi Direttore del Dipartimento (1906-1941), lo stesso Boas (uno dei Maestri americani della disciplina), lo Spier. O, in tempi a noi più vicini, il Turnbull. Che, come Curatore Associato di Etnologia Africana, ha cercato di sistematizzare in Man in Africa (oggi African Peoples) una collezione di oltre quarantamila pezzi provenienti da tutto il continente.
John Lloyd Stephens figura nel vol. IV, America, del mio: Alla Scoperta del Mondo.
La grande antropologa Margaret Mead compare nel vol. II delle Grandi Avventure dell'Antropologia
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