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giovedì 26 dicembre 2024

307. THOR HEYERDAHL, 1914-2003: Polinesia (Isole Marchesi e Tuamotu), Galapagos, Isola di Pasqua, Maldive, Perù, Canarie; traversate oceaniche (Pacifico, Atlantico, Indiano). Negli ultimi anni in più di un'occasione avevo "incontrato" Thor Heyerdahl al di fuori delle pagine dei libri; La zattera del Kon-Tiki (1947). DA: LE GRANDI AVVENTURE DELL’ANTROPOLOGIA. Vol. 2: da THOR HEYERDAHL AD ALFRED REGINALD RADCLIFFE-BROWN

Thor Heyerdahl, ca. 1980 (foto NASA)


Cosa c'è nel libro

Thor Heyerdahl,  Charles Hose, Everard im Thurn,  Jesup North Pacific Expedition 1897-1902 (Bogoras, Farrand, Fowke, Hunt, Jacobsen, Jochelson, Jochelson-Brodskaya, Laufer, Smith, Swanton, Teit, Franz Boas),  Clyde Kay Maben Kluckhohn,  Michel Leiris, Ralph Linton,  Henri Lhote, Robert Lowie, Jean Malaurie, Edward Man, Margaret Mead, Alfred Métraux, Ashley Montagu, Siegfried Nadel, Kurt Nimuendajú, Erland Nils Nordenskjöld, Hortense Powdermaker, John Wesley Powell, Charles Rabot,  Radcliffe-Brown,

...

THOR HEYERDAHL, 1914-2003: Polinesia (Isole Marchesi e Tuamotu), Galapagos, Isola di Pasqua, Maldive, Perù, Canarie; traversate oceaniche (Pacifico, Atlantico, Indiano) 

Giovedì 18 aprile 2003, ad ottantasette anni d'età, si spegneva il grande Thor Heyerdahl nella ligure Colla Micheri (...). 

Nato nel 1914 a Larvik, nella Norvegia meridionale, da tempo era un ligure d'adozione, anche se nel 1990 si era trasferito a Tenerife, nelle Canarie, per essere vicino alle piramidi di Güímar, oggetto dell'ultima sua ricerca. 

Heyerdahl, che dal 2001 dirigeva una missione ad Azov (Russia) e all'inizio del 2003 era nelle Samoa per impostarne un'altra, si trovava a Colla Micheri per una riunione di famiglia (...). 

Dopo un breve ricovero ospedaliero, decideva di andare a morire nella sua casa, "poiché era tempo di appendere i remi e di cavalcare verso il tramonto" (...) . 

Per oltre mezzo secolo gli abitanti del "paese dei fiordi" hanno considerato l'etnologo norvegese come un mito vivente. 

Idealmente faceva parte di uno straordinario Pantheon di eroi norvegesi, comprendente Nansen, Amundsen e Ingstad (...), le cui imprese hanno legato tra loro ben tre secoli. 

 Pochi sono i nomi che, come quello di Heyerdahl, sono conosciuti in tutto il mondo. 

Anche se per forza di cose in questi ultimi anni il ricordo delle sue molteplici imprese si è appannato. 

Non solo perché l'età anagrafica avrebbe dovuto suggerire (...) un suo più che meritato "ritiro". 

(...) Ma anche perché altri sono oggi i valori (o i disvalori) e le "idee-guida" verso cui mass-media, social networks e opinion leaders veicolano l'attenzione di tutti. 

Ma per molti di noi, per almeno tre generazioni, Thor Heyerdahl era e resterà indelebilmente l'Uomo del Kon-Tiki. 

Grazie a quella sua prima ardita e grandiosa impresa, la cui brillante realizzazione si inverò sotto gli occhi di una moltitudine di popoli che (...) cercavano di uscire faticosamente dalle tenebre delle devastazioni (...) di una guerra mondiale. 

E la coraggiosa impresa di Thor Heyerdahl (...) seppe (...) far emozionare e sognare moltissima gente, in Italia come altrove. 

 Poiché la zattera del Kon-Tiki costituisce l'archetipo dell'avventura e del fantastico. 

 Un sogno ardito e incredibile realizzato grazie all'intuizione, all'inaspettato e insospettabile volo di fantasia di uno studioso non da tavolino. 

In un'epoca in cui erano al di là da venire i viaggi nello spazio e gli allunaggi, la cibernetica e l'informatica, Internet e le realtà virtuali, i raids in solitario intorno al mondo e gli sports "estremi". 

E la narrazione dell'impresa del Kon-Tiki (...) non poteva non far parte integrante, fin dai primi anni '1960, di una minuscola e ben selezionata serie di libri di viaggi, esplorazioni e ricerche etnologiche, che condizioneranno il mio futuro. 

 Negli ultimi anni in più di un'occasione avevo "incontrato" Thor Heyerdahl al di fuori delle pagine dei libri

L’avevo visto in televisione (...) in qualità di prestigioso testimonial dell'inaugurazione dei XVII Giochi Olimpici invernali di Lillehammer del 1994. 

 Ben più emozionante è stata la seconda volta, quando ad Oslo visitai il Museo del Kon-Tiki

(...) Qualche anno dopo la mia visita nella capitale norvegese, la Società Geografica Italiana ospitava la mostra: Thor Heyerdahl, l'uomo del Kon-Tiki

In quell'occasione constatai con piacere come lo studioso, ad oltre ottantadue anni d'età, fosse più che mai "sulla breccia". 

(...) Infine qualche tempo fa, a bordo di uno dei traghetti del suo grande amico e mecenate, il norvegese Fred Olsen, che mi portava dall’isola di Lanzarote a quella di Fuerteventura, avevo raccolto altre "nuove" sull'attività da lui svolta nelle Canarie. 

 La zattera del Kon-Tiki (1947) 

 Quello del Kon-Tiki è uno dei pochi musei al mondo in cui l'illuminazione scarseggia ad hoc. 

Ciò che è esposto va visto, sì, ma non più di tanto. 

 Piuttosto va intravisto, cercando di coglierne i particolari e l'atmosfera (...). 

Ciò che vi si trova va "letto" con il cervello, ma anche con il cuore, con i ricordi di letture e... con ammirazione e rispetto. 

Verso l'uomo che ha ideato tante imprese nei mari di mezzo mondo. 

In effetti la non molta luce interna è dovuta ad una comprensibile e rispettosa cautela conservativa. 

Poiché i materiali (...) sono estremamente fragili e deperibili. 

Non dimentichiamo come sia passato oltre mezzo secolo dalla prima impresa dell'Heyerdahl. 

Ecco quindi la zattera del Kon-Tiki, costruita in tronchi di balsa equadoregni e la barca di papiro Ra II. 

Con il Kon-Tiki Heyerdahl verificò nel 1947 l'ipotesi di una possibile colonizzazione delle isole polinesiane da parte di popolazioni precolombiane provenienti dal Sud America. 

Con la seconda provò nel 1970 la fattibilità di antiche navigazioni transatlantiche tra il nord Africa e il centro America. 

Due verifiche che solo un riscontro diretto avrebbe potuto avvalorare, secondo le ipotesi diffusionistiche (culturali) da lui propugnate. 1

 Certo fece una certa impressione stare di fronte al manufatto del Kon-Tiki (...). 

Una ricostruzione (...) di una tra le più semplici e antiche imbarcazioni che l'Uomo abbia utilizzato per spostarsi sull'acqua. 

Con essa l'Heyerdahl sfidò e vinse le inclementi forze della natura, i venti, le tempeste e le capricciose intemperanze del Pacifico, uno dei più temibili oceani che si conosca. 

In un così inconsistente e fragile guscio di noce l'Uomo del Kon-Tiki ha ripercorso una possibile via di emigrazione verso l'Oceania: da Callao (Perù) a Raroia (arcipelago delle Tuamotu), dopo 8.000 Km e 101 giorni di navigazione. 

Un'isola a non molta distanza da quella di Fatu Hiva (Marchesi) dove, nel corso della sua prima ricerca del 1937-38 (...) andò maturando l'idea della traversata. 

 “Io ero rapito. Caddi in ginocchio, affondando le dita nella rena asciutta e calda. 

 Il viaggio era finito. 

Eravamo vivi, 

Approdati su un’isola deserta del Mare del Sud. 

 E quale isola! (…) 

Ci stendemmo comodamente sul dorso, occhieggiando soddisfatti le nubi del passat che veleggiavano verso occidente di sopra le corone delle palme. 

Ormai non dovevamo più inesorabilmente seguirle: eravamo su un’isola immobile e salda dell’autentica Polinesia (…) 

Una notte i nostri radiotelegrafisti coronati di fiori riuscirono a comunicare col dilettante di Rarotonga, il quale ci trasmise un messaggio da Tahiti: era un cordiale benvenuto del Governatore della colonia francese del Pacifico. 

Dietro ordine di Parigi, egli aveva inviato il veliero governativo Tamara per trasportarci a Tahiti (...). 

 Tahiti era il nodo centrale della colonia francese, e l’unica isola che avesse comunicazioni con il resto del mondo (...) ” (...). 

Con il RA II Heyerdahl nel 1970 andò in 57 giorni dal Marocco (Safi) alle Barbados (6.100 Km). 

 I ricordi di letture giovanili, i riscontri e gli approfondimenti successivi, la conoscenza di particolari e di grandi tematiche, i miei personali "vagabondaggi" scientifici: in una parola l'intero background dello specialista, mi portarono a contemplare i simboli, ma anche gli "strumenti" pratici e concreti, che lo studioso norvegese sperimentò di persona, al posto di teorizzazioni fumose ed impeccabili dissertazioni. 

(...) Fin dall'epopea del Kon-Tiki i suoi equipaggi sono stati l'immagine stessa di una scienza senza frontiere e senza legami e di un pacifico internazionalismo, in tempi in cui la guerra fredda ribolliva più che mai. 

Non per niente le successive imprese del Ra [1970], a cui partecipò anche l'italiano Carlo Mauri, l’antropologo messicano Santiago Genovés (oltre ad uno studioso sovietico), ebbero l'altissimo patrocinio dell'ONU

Oltre tutto quest'ultima spedizione è stata la prima a lanciare un grido di allarme ecologico in tutto il mondo. 

Viaggiando sul pelo dell'acqua ci si accorse come l'inquinamento ambientale avesse ormai raggiunto anche il centro dell'Atlantico. 

 Si possono, o no, condividere le teorie dell'Heyerdahl, o accettarle solo in parte. 

 Ma già lo stesso Museo (...)  è in grado di raccontarci, non solo le sue "verifiche transoceaniche" (...), ma anche altre sue imprese, pregne di risultati scientifici, oggettivi e inoppugnabili (...): 

DA: LE GRANDI AVVENTURE DELL’ANTROPOLOGIA 

Antropologi culturali, sociali, fisici, applicati, etnologi, etnografi, etnomusicologi, etnostorici, 
Vol. 2: da THOR HEYERDAHL AD ALFRED REGINALD RADCLIFFE-BROWN
(181 pp., 131 note, 163 immagini - 1 è dell'A. -)



E-Book: https://www.amazon.it/dp/B07J5J84J2



Versione cartacea: https://www.amazon.it/dp/1728759420




domenica 18 settembre 2022

62. RICORDANDO LA MIA PRIMA VISITA AL MUSEO AMERICANO DI STORIA NATURALE DI NEW YORK: LA SCOPERTA DA PARTE DI STEPHENS DI DUE INESTIMABILI STIPITI DI PORTA MAYA (KABAH), POI "RISCOPERTI" DA MORLEY; SHACKLETON, IL POLO SUD E LA BARCA "JAMES CAIRD"; LA GRANDE ANTROPOLOGA MARGARET MEAD


Uno dei due stipiti di pietra di una porta della città Maya di Kabah (Yucatàn), che raccontano la sua fondazione nell'879 d.C.  Stephens li fece trasportare a New York (vedi sotto). Attualmente fanno parte dei cosiddetti Treasures dell'American Museum of Natural History (© Franco Pelliccioni)

L'impatto con il Museo fu contemporaneo alla mia prima visita degli States. En route verso il Messico, dove mi attendeva un Congresso in zona Maya e un'indagine antropologica da effettuare tra i Huave, un gruppo di indios lagunari dediti alla pesca nell'Istmo di Tehuantepec (Stato dell'Oaxaca). 

Naturalmente la mia agenda, in occasione di quel primissimo approccio con la realtà culturale "altra" di New York e degli USA in toto (Washington rappresentò l'altra, obbligata, tappa del viaggio verso la Mesoamerica), sarebbe stata febbrile. Stracolma, com'era, di impegni, visite, contatti. Cosa che del resto si ripeté ogni volta che ritornai in America.

Emozionante e densa di aspettative per l'antropologo sarebbe stata, non solo la completa immersione nella realtà culturale americana e, particolarmente, in quella della sua megalopoli. Ma anche in ciò che avrei potuto provare nei confronti di alcune eccezionali istituzioni culturali. Come nel caso del celeberrimo Museo Americano di Storia Naturale. Sito nell'Uptown (la "città alta" di Manhattan), all'incrocio tra la 79^ Strada e Central Park West, cioè a sinistra del Central Park, all'altezza del Metropolitan, l'altra grande istituzione  nuovayorchese.

E' un complesso di edifici dall'aspetto fiabesco con le sue alte torri, che gli americani usano chiamare ben più semplicemente American Museum. Del resto anche per i francesi il Museo di Storia Naturale di Parigi è il Muséum per eccellenza... 

Il Museo di Storia Naturale ha raggiunto oggi i 153 anni di vita. Venne fondato nel 1869 per l'avanzamento degli studi e l'insegnamento delle scienze naturali. Dal 1871 al 1877 fu ospitato nei locali dell'Arsenale, esistente allora a Central Park. 

Nel 1874 il Presidente Grant posò la prima pietra di un nuovo edificio, in una zona paludosa, disseminata di fattorie e squallide bidonvilles, raggiungibile comunque con le diligenze. Harlem era allora solo un modesto insediamento localizzato più a nord. 

Una scalinata mi condusse all'interno, passando attraverso un Arco Romano e il Memoriale a Theodore Roosevelt, aggiunto successivamente all'originario nucleo centro-meridionale del Museo, in stile vittoriano-gotico, 1877. Un primo ampliamento è del 1892. Altri seguiranno a partire dal 1900, fino a tempi a noi più vicini.

Il Museo nel 1917

Lo spazio espositivo è gestito secondo criteri che hanno esemplarmente anticipato la moderna attenzione nei confronti dell'ecologia. Dando spazio nelle sue immense sale, attraverso diorami a grandezza naturale e singoli reperti, alle scienze naturali (zoologia, botanica, ecc.) e a quelle umane (pregevole materiale archeologico ed etno-antropologico raccolto in quasi tutto il mondo). 

Complessivamente il museo detiene oltre 23 milioni di reperti, non tutti ovviamente esposti. Acquisiti sia sul campo, che grazie a doni, scambi, acquisti. 

Ecco, quindi, la Storia della Terra, la Vita degli Oceani (dove è esposto il Coelecantus, un pesce dell'Oceano Indiano, per tanto tempo ritenuto estinto), i Rettili e gli Anfibi, i Meteoriti, Gemme e Minerali. Ed ancora: due Sale dei Dinosauri con scheletri di oltre 150 milioni di anni e uova con l'embrione di Protoceratops ritrovato nel 1923, nella Mongolia cinese. 

Allosaurus, Brontosaurus, Stegosaurus e Tyrannosaurus sono autentiche stars, da sempre le più gettonate del Museo, da parte di visitatori adulti e bambini. 

Ecco le sale degli Uccelli (nord-americani, oceanici), dei Mammiferi (africani, asiatici, nord-americani, ecc.), quindi un Planetarium. Poi quelle dei Popoli Africani, seguiti dalla Biodiversità e dal Cambiamento del Clima. Ed ancora: Sud America, Messico e America Centrale, Indiani d'America (Nord-Ovest, delle Pianure e dei Boschi). Infine gli Eschimesi completano l'esposizione.

Furono i Musei americani, non le Università, per un lunghissimo periodo - ma ancora oggi - a dare un notevolissimo impulso alla ricerca nei più diversi campi dello scibile. Così fu anche il caso del Museo Americano, dove troviamo numerosi Dipartimenti: Etologia, Antropologia, Erpetologia, Mineralogia, ecc.

Una prima spedizione esplorativa alla ricerca dei bisonti fu organizzata nel 1887 nelle Badlands del Montana. 

Imponente fu la missione dell'Andrews del 1923 nel deserto di Gobi. Furono percorse 2.200 miglia di distese inesplorate e scoperte uova di dinosauro. 

Asia, Artico, Pacifico meridionale e Africa sono state le mete preferite dagli studiosi associati al Museo. 

L'esploratore e naturalista statunitense Roy Chapman Andrews (1884-1960) in Mongolia ca. 1920

In occasione di quella mia primissima visita (altre due seguiranno: sette anni dopo e, poi, nel 2011), con la mia Nikon scattai solo poche foto. 

Un paio mi servirono per riprendere due stipiti decorati della porta di un tempio Maya. Conoscendone la loro storia avventurosa, ma anche curiosa, erano infatti particolarmente importanti. Tanto più che di lì a poco nello Yucatàn avrei anche visitato alcuni celebri siti archeologici: Chichen Itza, Uxmal, Kabah. E, successivamente, quello stupendo gioiello urbano strappato all'intrico delle giungle del Chiapas, che è Palenque. 

Le stipiti, costituite da lastre di pietra calcarea, alte un metro e ottanta e spesse 60 cm, sono scolpite in bassorilievo e rappresentano una figura umana inginocchiata, uno schiavo, che regge una maschera davanti ad un sacerdote-guerriero, con il capo avvolto in uno splendido ornamento di piume di quetzal

I reperti Maya, risalenti al IX secolo, furono ritrovati a Kabah nel corso della seconda spedizione di Stephens e Catherwood. Furono loro che tra il 1839 e il 1843 scopriranno ben 44 siti archeologici immersi nella foresta, tra Messico e America Centrale, risalenti a quell'antica civiltà. 

"Tolsero dalla nicchia della facciata del palazzo i due monoliti, pesanti ciascuno due quintali e mezzo, li avvolsero in un involucro protettivo d'erba e paglia e li prepararono per l'imbarco (...) Squadre di indiani che si davano il cambio lungo il percorso riuscirono a trasportarli fino alla costa, adagiati sopra un lungo tronco d'albero cui erano assicurati mediante robuste liane". 

Stephens tra le rovine di Kabah (Yucatàn, 1842) sorveglia la rimozione di uno dei due stipiti di pietra 

Queste sculture dovevano essere esposte nella "Rotonda" di Catherwood a New York. Che nel frattempo era stata distrutta da un incendio, assieme a tutto il materiale archeologico raccolto in precedenza. 

Stephens, suo malgrado, fu costretto a consegnarle ad un amico, che le incastonò in un muro della sua tenuta di campagna, sulle sponde del fiume Hudson.

Nel 1884 le sculture vennero "riscoperte" dal viaggiatore svedese Bremer. Nel 1918 Sylvanus Morleycelebre specialista dei Maya, dopo essere venuto a conoscenza della loro esistenza grazie alla lettura del libro di viaggi di Bremer, andò sul posto a vedere quel "muro". Rendendosi subito conto della loro estrema importanza! 

Nel 1919 il Museo acquisterà i due stipiti per l'astronomica cifra  di diecimila dollari. Andranno a costituire  il nucleo iniziale di una collezione d'arte Maya. Oggi visibile nella sala 2.4 (Mexico and Central America), dove li rintracciai e fotografai.

Come per altri musei del mondo, anche la filosofia espositiva dell'American Museum si basa su mostre temporanee, legate a tematiche, aree o eventi di particolare interesse e significato. Come nel caso della mostra fotografica (Aprile - Ottobre 1999) sulla "Leggendaria Spedizione Antartica di Shackleton" del 1914, nella quale il pubblico potè osservare  150 fotografie, molte delle quali esposte per la prima volta. Oltre ad estratti del diario e a reperti della spedizione. Tra cui una barca di salvataggio "speciale", la James Caird, oggi visibile nel Dulwich College (Londra).

Mappa delle rotte delle navi Endurance e Aurora, la rotta della squadra di supporto e la rotta trans-antartica pianificata della Spedizione Trans-Antartica Imperiale Britannica guidata da Ernest Shackleton nel 1914–15 (CC some rights reserved, Finetooth, Like tears in rain, U.S Central Intelligence Agency) 

Si mette in acqua la James Caird dalla riva di Elephant Island, 24 aprile 1916 (da Ernest Shackleton, South, Londra 1919)

Fu infatti grazie ad essa che Shackleton riuscì a raggiungere una stazione baleniera sita nella lontana Georgia del Sud, dopo un tremendo viaggio di 800 miglia nell'Oceano. Qui organizzò i soccorsi per salvare tutti i membri del suo equipaggio, che era ancora rimasto a bordo della nave Endurance, per dieci mesi bloccata dai ghiacci della banchisa. L'intenzione originaria dello Shackleton, prima della sua disavventura, era quella di compiere la traversata del Polo Sud.

Giacca di pelle di taglio europeo con perline. Sono raffigurati indiani a cavallo, le cui code sono legate, in vista di una battaglia. Indiani Lakota, ca 1890 
(© Franco Pelliccioni)

Tornando a parlare delle ricerche che fanno capo al Dipartimento di Antropologia, sapevo come per un lungo periodo di tempo fosse stata  sua Curatrice quella che, al tempo della mia prima visita, era considerata la più grande antropologa contemporanea, Margaret Mead

Nel 1926 la Mead era già aiuto conservatore di etnologia. Un personaggio straordinario, che per molti anni costituì il simbolo vivente e di riferimento culturale per moltissimi: come donna anticonformista, moglie, affettuosa madre, nonna, insigne scienziata, grandissima divulgatrice. Forse quest'ultimo è stato il suo più grande merito: "penso che la cosa più importante che ho fatto sia stata quella di avvicinare l'antropologia al pubblico più largo, di media cultura. La gente agli inizi non capiva assolutamente che cosa gli antropologi facessero, o perché andassero a studiare quegli strani popoli dall'altra parte del mondo". Essa ha saputo insinuare nella coscienza americana il suo messaggio contro il razzismo e l'etnocentrismo. 

E mosse i suoi primi passi scientifici proprio grazie agli impulsi, di teoria e di metodo, ricevuti dal Museo. Con ricerche sul campo in Polinesia (Samoa, 1925-26), Melanesia (Isole dell'Ammiragliato, 1928; Nuova Guinea - Arapesh, cannibali Mundugumor, Ciambuli, 1931-1933), Pellerossa Omaha (Nebraska, 1930), Bali (1936-38), ancora in Nuova Guinea (Iatmul,1939).

Molti sarebbero stati ancora gli studiosi che legarono la loro attività di ricerca e di studio al Museo. Come lo Wissler, prima conservatore e poi Direttore del Dipartimento (1906-1941), lo stesso  Boas (uno dei Maestri americani della disciplina), lo Spier. O, in tempi a noi più vicini, il Turnbull. Che, come Curatore Associato di Etnologia Africana, ha cercato di sistematizzare in Man in Africa (oggi African Peoples) una collezione di oltre quarantamila pezzi provenienti da tutto il continente. 

John  Lloyd Stephens figura nel vol. IV, America, del mio: Alla Scoperta del Mondo

La grande antropologa Margaret Mead compare nel vol. II delle Grandi Avventure dell'Antropologia

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