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sabato 13 agosto 2022

55. I PINGUINI DELL'EMISFERO SETTENTRIONALE

 

La Grande Alca. Incisione di Thomas Bewick, in: A History of British Birds, Volume 2, 1804

Fin dalla mia lontana indagine nelle isole scozzesi delle Orcadi, un pensiero mi ha costantemente accompagnato, a mo' di "tormentone", in tutti questi anni. Portandomi ad approfondire luoghi, circostanze, fatti, costumi e storia. 

L'antropologo, calatosi nei panni di uno Scherlock Holmes, indagando tra natura-storia-etno-antropologia, fame e… passate infamie, è andato di isola in isola, di arcipelago in arcipelago, da una sponda all'altra del grande oceano: Orcadi, Terranova, Fær Øer, St. Kilda, infine Islanda. Mettendosi testardamente sulle tracce… di un curioso animale scomparso. 

Nel tempo ho così osservato, avvicinato, conosciuto alcuni tra i luoghi dove si riproduceva. Qua uno scoglio, là una ripida scogliera, poi un isolotto, infine una grande isola. Tutti gli indizi in mio possesso facevano sì che esso fosse dato per estinto da oltre un secolo. Ma prove sulla sua esistenza non ne avevo, se non in qualche antica raffigurazione. D'altronde non era proprio così che affermavano, nel XIX secolo, alcuni studiosi con ipocrita sicumera? L'animale non era mai esistito. Chi l'aveva visto, aveva guardato male. Quindi, un puro parto di fantasia, forse solo un mito o una leggenda. Insomma, un altro dei tanti kraken dei sette mari, sia pure molto bonaccione. 

Eppure esso mi apparirà nel 1998. E' "solo" un grande uccello. Per le sue dimensioni, assomiglia a un pinguino. E ai piedi ha la sua discendenza! Un uovo… Ma non lo sta fecondando. Nonostante sia un esemplare sano e salvo - dagli altri, gli umani -. E' sì, ben conservato, ma anche altrettanto "impagliato". Al di là di una vetrina che gelosamente lo custodisce. Ricordandolo ai visitatori come uno tra gli ultimi esemplari di quella razza ancora visibili, sia pure all'interno di un'istituzione. 

Ecco infine l'alca gigante (Pinguinus Impennis), detto anche "uccello-lancia" (il geirfugel  vichingo), "becco-lancia" (spearbill - inglese - o arponaz - basco -) o, più comunemente, "pinguino del nord", nel Náttúrufræðistofnun Íslands, il Museo di Storia Naturale di Reykjavík.

L'alca gigante, appartenente alla famiglia degli alcidi, come urie e puffini, la cui presenza in Atlantico è ancora fortunatamente numerosa, aveva una caratteristica: quella di avere solo dei moncherini di ali, che non gli consentivano di volare. Ma di immergersi e di nuotare sott'acqua per catturare i pesci fino alla ragguardevole profondità di 100 m. 

Insomma, più che un uccello, ci troviamo di fronte ad una sorta di sommozzatore, che prendeva terra solo per  riprodursi, per poco più di un mese. 

Aveva un corpo grande (era alto 70 cm), grasso e muscoloso e sul terreno si muoveva con una buffa andatura ballonzolante da ubriaco. E per secoli, direi anche millenni, ha costituito un ottimo e abbondante bocconcino per gli umani. 

Perché si sono ritrovate rappresentazioni di alche nei graffiti rupestri norvegesi - 6200/2500 anni fa -. Ma anche numerosissime ossa nelle sepolture degli Indiani Marittimi arcaici di Port-aux-Choix, a Terranova - 4290/3500 anni fa -. Come avevo osservato nelle vetrine del Visitor Centre del Port au Choix National Historic Site. 

Eppure per secoli le colonie esistenti da una parte all'altra dell'Atlantico non avrebbero risentito di questa caccia.

Anche perché i singoli superpredatori umani "piluccavano" sul posto solo quanto bastava loro per la sopravvivenza. Non si erano ancora organizzati in gruppi per sterminarli scientificamente. 

Fino al tempo delle grandi imprese esplorative e commerciali dirette verso il Nord America. Ricordo solo: Jacques Cartier: "ognuna delle nostre navi ne ha messi sotto sale quattro o cinque barili, senza contare quelli che siamo riusciti a mangiare freschi" (1534) e Samuel de Champlain: "uccelli così abbondanti che si possono ammazzare a bastonate"(1620). 

Le colonie degli uccelli esistenti in Nord America davano modo agli equipaggi delle navi, che si avventuravano in quei mari subartici, di rifornirsi con  facilità di uova e carne. Le navi ben presto presero l'abitudine di ancorarsi nei pressi di alcune località ben specifiche, e gli uccelli, non solo i pinguini, diventarono l'alimento preferito di pescatori e, poi, degli stessi coloni. Più tardi ci si sarebbe riforniti anche per il viaggio di ritorno. Era infatti regola comune, per l'armatore, rifornire le navi di cibo per la sola andata.

Lo sterminio delle alche giganti si sarebbe terribilmente velocizzato quando: si iniziarono a raccogliere le uova fresche, distruggendo tutte le altre deposte da tempo (l'alca depone un solo uovo all'anno); vennero utilizzate per ricavarne olio; si raccolsero penne e piume per imbottire materassi, cuscini, sedie e poltrone. 

Nel 1802, dopo tre secoli di frequentazioni europee, l'alca gigante si estinse nel principale luogo di riproduzione di tutto il Nord America, l'isola di Funk, al largo della costa settentrionale di Terranova

Ma il massacro delle alche gridò vendetta. 

E l'ottenne, sia pure indirettamente! 

Nel XIX secolo numerosi furono i naufragi in quel settore nord-atlantico. 

Forse alcuni di essi potevano essere evitati se le alche fossero state ancora in vita. Per anni la loro numerosa presenza nelle acque dei Banchi aveva segnalato, alle navi in avvicinamento, l'approssimarsi di scogliere o di altre infide conformazioni rocciose. 

Zone, queste, dove la nebbia e il suo rapido propagarsi è una nota costante. 

Così l'English Pilot  poteva ancora avvertire nel 1774. Nel 1792 "questo sicuro punto di riferimento era oramai scomparso". 

Ancora all'inizio del XIX secolo nell'isola settentrionale di Papa Westray, nelle Orcadi scozzesi, c'era una coppia di alche. La femmina morì o venne uccisa. Un collezionista sparò al maschio nel 1813. 

Nel 1840 gli isolani di Hirta (St Kilda, Scozia) uccisero la loro ultima alca nei pressi del  faraglione di Stac An Armin, avendola scambiata per una strega. 

La presenza delle alche in queste isole è sicura, comunque, fino al 1829.

Alcuni esemplari del grande uccello rimasero in vita nell'isolotto di Eldey, un pilastro roccioso che per 77 m fuoriesce dall'oceano, al largo della costa sud occidentale dell'Islanda, a 14 Km dalla penisola di Reykjanes. 

Ancora all'inizio del secolo la colonia contava un centinaio di esemplari. Tra il 1830 e il 1843 almeno 50-73 uccelli (oltre ad un imprecisato numero di uova) passarono nelle mani dell'esportatore di Reykjavik Siemson. Finendo immancabilmente nei gabinetti naturalistici di mezza Europa. 

E sì! Perché le alche giganti erano ormai divenute autentiche rarità e, perciò, preziose per i collezionisti. Che così  contribuirono a versare a Eldey la "classica" ultima goccia letale per l'innocua razza di uccelli. 

Il 3 giugno del 1844 tre pescatori di Staður, Ketil Ketilsson, Jon Brandsson e Sigurdur Isleffsson, uccisero a bastonate due alche giganti per un collezionista, gli ultimi due esemplari della loro razza rimasti in vita in tutto il mondo. 

L'unico uovo che si trovava nel nido era già rotto!  E nel marzo del 1971 il Museo di Reykjavík acquistò per una grossa cifra, raccolta attraverso una pubblica sottoscrizione, in un'asta tenutasi da Sotheby's, a Londra, la sua alca. 

Essa aveva fatto parte della collezione di un nobile danese e, con ogni probabilità, fu a suo tempo uccisa proprio ad Eldey.

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                                                         ORCADI

mercoledì 1 giugno 2022

24. NEL REMOTO ARCIPELAGO ATLANTICO DI ST KILDA, AD OVEST DELLE EBRIDI ESTERNE, SCOZIA

Mappa dell’Arcipelago di St Kilda (GNU Free Documentation License, Autore: Eric Gaba - Sting -, marzo 2009, con l’utilizzo di Landsat ETM+ imagery [dominio pubblico])

 Solo e con le spalle alle capanne, potevo immaginare quale vita poteva essere stata ad Hirta e fui sopraffatto dalla lontananza di una vita siffatta. Avessi viaggiato direttamente fino a St Kilda da Edimburgo o Londra, quel senso di distanza si sarebbe accresciuto ancora ulteriormente. Dopo tre mesi di saltellamenti tra un’isola e un’altra, ero condizionato da terre circondate dall’acqua. Così mi era diventata famigliare la sensazione di essere isolato dal resto del mondo. Ma la nozione di distanza [remoteness] veniva costantemente ridisegnata. Arran sembrò remota rispetto alla terraferma dello Ayrshire, ma mi sembrò ridicola tale nozione allorché visitai Colonsay e Jura. Coll, in particolare, e Tiree erano apparse ancora più isolate - più Ebridi Esterne, che Interne -, come per Rum. St Kilda portò la mia definizione di isolamento e di remoto a nuovi livelli. Qui c’era il confine, un confine geografico alla frontiera dell’Europa nord-occidentale, ma anche un confine culturale e sociale” (Jonny Muir, 2011).

   La meta di quel viaggio non si poteva certamente definire "agevole". Nella mia vita più di una volta mi sono sentito dire, a proposito della scelta "a tavolino" dei luoghi dove andare a svolgere le mie ricerche, che "me le andavo cercando con il lanternino...". Per difficoltà, logistiche, o di altra natura, evidenti anche grazie ad una lettura, neanche tanto approfondita, della carta geografica. Difficoltà che avrebbero reso spesso difficoltosa la "discesa sul terreno". Ai miei gentili interlocutori non sfuggiva comunque il fatto che, superati gli "scogli", i risultati ottenuti sarebbero stati densi di gratificazioni, anche personali.

   Avrei pensato proprio a ciò subito dopo aver appreso dalla radio di bordo che la guardia costiera scozzese da Stornoway consigliava al mio skipper di tornare indietro. Dopo due ore di navigazione passate in mezzo alle acque dell'Atlantico che, anche se non burrascose, erano senza dubbio molto inquiete. In seguito avremmo potuto tentare una nuova traversata. In quel preciso frangente avrei sperimentato cosa significasse realmente cercare di raggiungere la mia meta. Che per una lunga serie di motivazioni costituiva l’aspetto più illuminante della ricerca di quell'anno. Del resto già caratterizzata da numerosi elementi di interesse.

   La destinazione di quel giorno, anche simbolicamente, rappresentava per me moltissimo. Fin da quando, ormai molti anni addietro, avevo iniziato i miei vagabondaggi scientifici per l'Atlantico. In più di un'occasione avrei infatti ad essa fatto riferimento, senza averne conoscenza diretta. E i lineamenti della sua eccezionale storia, da un lato "unica" nel suo genere, dall'altro paradossalmente uguale a quella di tante altre situazioni riscontrabili non solo nello scacchiere europeo, mi avevano da tempo affascinato e coinvolto emotivamente. Non solo come studioso dell'uomo. Rendendomi partecipe di una straordinaria, plurisecolare vicenda umana. Storia il cui triste, anche se non del tutto inatteso, epilogo, avrebbe avuto luogo non tanti decenni addietro.

   Da tempo, quindi, avevo incluso nel mio programma antropologico sulle comunità marittime dell’Atlantico del Nord una ricognizione "in loco".

   Nei secoli precedenti, ma ancora ai giorni nostri, le difficoltà insite nella navigazione rendono sempre difficile e per niente scontato l'arrivo in quel remoto pugno di isole, costituito dall'arcipelago di St Kilda. Allorché si riesce poi a raggiungerlo (quanti viaggiatori sono arrivati nei pressi per essere poi obbligati a tornare indietro...), non è detto che vi si possa sbarcare. A causa delle precarie condizioni meteo-marine e all'assenza di un sicuro, protetto ancoraggio, che spesso sconsigliano l'ormeggio nella Village Bay [il villaggio evacuato dalla Marina britannica nel 1930], nell'isola di Hirta. Ove ciò sia   possibile, le non numerose imbarcazioni che riescono ad arrivare, si ancorano al largo. Facendo scendere i passeggeri su gommoni o dinghies, che raggiungeranno il piccolo molo senza ulteriori problemi.

La foto-simbolo dell’arcipelago di St Kilda: il “parlamento” fotografato da George Washington Wilson nel 1885.
Lungo la strada del villaggio nei pressi dell'ufficio postale ogni giorno, salvo la domenica,  si radunavano infatti tutti i maschi adulti del mòd di St Kilda. Come da tempo immemorabile usavano fare davanti ad una qualsiasi delle abitazioni, per decidere il da farsi; lavori collettivi nei campi (crofts); la loro rotazione secondo l'antico sistema del runrig; le spedizioni di caccia agli uccelli nei vicini isolotti e scogli...

   Eseguito il consiglio, la Eilean Na Hearadh, in gaelico Isola di Harris, sulla quale mi ero imbarcato nel porticciolo occidentale di Tarbert, nell'omonima isola appartenente all'arcipelago delle Ebridi Esterne, al largo della Scozia nord-occidentale, invertì la rotta. Dirigendosi verso un sicuro ancoraggio interno. Cioè verso Loch Resort, uno dei profondi fiordi che caratterizzano il lato occidentale e aperto verso l'Atlantico di queste stupende isole. Riuscendo in tal modo a mitigarne la terribile potenza.

   Verso sera, a distanza di diverse ore dal brusco, ma necessario, dietro front, lo skipper si spingeva nuovamente in pieno oceano, per coprire le cinquanta miglia nautiche che ci separavano da St Kilda. Se tutto fosse andato per il verso giusto si sarebbe dovuti arrivare intorno alle due e trenta di notte. Mi fu fatto altresì notare come intorno alla mezzanotte (cosa che puntualmente si verificò) la piccola e bassa imbarcazione, un vetusto motorsailer, avrebbe considerevolmente ballato per le forti ondate. In quell'ora ci saremmo trovati sul bordo della piattaforma continentale, laddove la profondità oceanica tende ad inabissarsi. Per poi risalire in prossimità del piccolo arcipelago.


   Numerosi erano quindi i motivi di interesse che mi spingevano fino a St Kilda. In teoria facendomi rischiare anche la vita. Ma ne valeva la pena. Perché, nonostante la durata della mia permanenza nell'isola di Hirta, la maggiore del gruppo, si sarebbe giocoforza contratta, le ore passate a terra: a curiosare, indagare, cercare, individuare, prendendo appunti e fotografie, rappresentarono un'eccezionale esperienza, anche per un giramondo. .

   (...) Ecco che, gradatamente, si sono venuti enucleando i punti di forza dell'isola atlantica: esistenza di una comunità marittima; isolamento plurisecolare della stessa dalla terraferma scozzese (e britannica) e, perciò, dal cosiddetto "mondo civile"; forzato e "archetipico" abbandono dell'isola in tempi recenti; trasformazione dell'uso del territorio (militare, ma soprattutto naturalistico).


  Una comunità marittima, quella di St Kilda, i cui membri preferivano però cacciare e catturare gli uccelli marini, che vi si trovavano in grandissima quantità. E catturarli non era impresa facile. Anzi difficilissima e rischiosissima, che ogni volta metteva in gioco la vita degli “uomini-uccello”. Sia quando scalavano le scogliere o i faraglioni, ma ancora prima. Quando dalla barca dovevano cercare di raggiungere le rocce, ad esempio degli Stacs.


p.s.

A proposito del suo toponimo, nonostante alcune importanti pagine Web (in italiano) si ostinino a riportare l'aggettivo Santa (Santa Kilda), non esiste una Santa di nome Kilda. Come oggi si evince dalla corretta scrittura del toponimo in inglese, privo di punto.

   L’errore è riportato cartograficamente in una carta di L. J. Waghenaer Thresoor der Zeevaert del 1592, che ricopia malamente una mappa di Nicolas de Nicolay del 1583 (Charte de la Navigation du Royaume d'Escosse). Dove appare Skildar, dall’islandese skildir, cioè “scudi”. Mentre sempre, nell’odierno vocabolario islandese [Ensk-Íslensk, a cura di Sævar Hilbertsson e Bjarni Gunnarsson, 1985], per Kilda leggo: "acquitrino-palude". 

DA: NELL'ARCIPELAGO DEGLI “UOMINI-UCCELLO” DI ST KILDA. VITA E MORTE DI UNA REMOTA COMUNITÀ' SCOZZESE 

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SOMMARIO

Premessa           

Introduzione     

CAPITOLO 1       

Il viaggio         

L'arcipelago di St Kilda   

La natura a St Kilda          

Una comunità' di “uomini-uccello”          

L'arrivo 

Nel villaggio: le “case bianche” e i ruderi di quelle “nere”              

L’incontro tra la Euphemia MacCrimmon e il grande folclorista scozzese Carmichael          

Le comunicazioni con il mondo esterno: John Sands e la St Kilda Mail      

Il “Parlamento” 

XVIII secolo: lo strano, tragico caso di Lady Grange, deportata nell’isola; si cerca Bonnie Prince Charles a St Kilda 

I soggiorni di John Sands a St Kilda: 1875 e 1876-77       

CAPITOLO 2       

Il turismo "ante litteram" verso l'esotico britannico          

CAPITOLO 3       

La fine del Paese di Utopia: problemi ambientali, sanitari, di sopravvivenza          

Le tre fasi finali del tramonto di una remota comunità isolana: “contatto”, “scontro”, “disgregazione” culturale    

Il giorno dell’evacuazione: 29 agosto 1930           

CAPITOLO 4       

Alla scoperta dell’arcipelago       

Stac Lee, Stac an Armin, Boreray               

John Sands si arrampica su Boreray: con gli “uomini-uccello” nel 1876, con le “donne-uccello” nel 1875 

La scalata dello Stac an Armin del 1994

Quando Marylin non è la Monroe. Ovvero gli incredibili Stacs, palestra privilegiata di un pugno di alpinisti britannici, nella loro doppia sfida ai flutti dell’oceano e alle rocciose piramidi, per conquistare i più ambiti “marilyn” del Regno Unito    

Visitando Hirta  

CAPITOLO 5       

I “Viaggiatori” (1202-1929): Vescovi, religiosi e fattori; pirati, naufraghi e deportati; naturalisti e ornitologi; geologi e folcloristi; medici e chimici; nobili, politici, filantropi e commissioni d’inchiesta; pittori, fotografi e cineasti; turisti e alpinisti; il leader di una missione di soccorso; perfino un’eccezionale emula della celebre aviatrice Amelia Earhart               

1930: Due non previsti testimoni dell’evacuazione di St Kilda       

BIBLIOGRAFIA