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domenica 14 aprile 2024

142. A PROPOSITO DEL LAVORO ANTROPOLOGICO SUL CAMPO IN UN PAESE DEL TERZO MONDO: DIFFICOLTA’, IMPREVISTI, COMPLICAZIONI, PERICOLI NEL CORSO DELLA MIA SECONDA RICERCA IN UN SUD SUDAN, NON ANCORA INDIPENDENTE

Una piroga Shilluk (scherok) si porta velocemente verso il battello che sta lentamente risalendo il Nilo Bianco, per vendere qualche mango o per permettere ad un passeggero di imbarcarsi. Sud Sudan, 1979 (© Franco Pelliccioni)


Carta politica del Sudan del 1989 (University of Texas at Austin, Perry-Castañeda Library Map Collection)

Ieri mi è casualmente capitata tra le mani la relazione ufficiale della seconda ricerca sul campo effettuata nella cittadina multietnica di Malakal, capoluogo della Provincia del Nilo Superiore, a ca. 850 km a sud di Khartoum, lungo lo storico Nilo Bianco. Reso celebre dai libri dello scrittore australiano Alan Moorhead.
Raggiunta in aereo. Non come nel 1979, quando per un intero giorno attraversai in Land Rover il deserto, fino alla cittadina di Kosti. 
Dove il giorno dopo mi sarei imbarcato a bordo di un vetusto battello a pale posteriori, che sospingeva tre chiatte (di 3 classe), ed era affiancato da altre due (di 1 e 2 classe). 
Arrivando a destinazione dopo aver lentamente risalito il Nilo per quattro lunghi e straordinari giorni!

Dopo il primo giorno di navigazione, sulla riva est del Nilo Bianco sorge l'aurora, illuminando il cielo con i suoi colori magici,1979
(© Franco Pelliccioni)


Il rapporto era indirizzato alla Fondazione Alighiero Panzironi di Roma, al CNR (Comitato Nazionale per le Scienze Economiche Sociologiche e Statistiche), al Centro per le Relazioni Italo Arabe, al Ministero degli AA.EE., all’Ambasciata d’Italia a Khartoum.

Il battello che arriva da Juba discende lentamente il fiume. Si nota un coacervo di chiatte sospinte e/o affiancate, esattamente come il mio, 1979 (© Franco Pelliccioni)

Nella cabina di comando della nave, 1979 (© Franco Pelliccioni)
 

 Nella chiatta di seconda classe di un'altra nave, che discende il fiume diretta a Kosti, soldati in uniforme o indossanti la bianca jellabia, 1979 (© Franco Pelliccioni) 

Al punto 2 facevo notare che, grazie all'AGIP, avevo potuto disporre di due fusti di benzina a Malakal, che avrebbero consentito, a me e alla collega Cecilia Gatto Trocchi (allora all'Università di Perugia), che si era aggregata alla missione, di effettuare indagini collaterali, sia tra i Mesakin Nuba (sia pure minoritari, i Nuba delle montagne del vicino Kordofan meridionale [Dar Nuba], resi celebri dalle fotografie della Leni Riefenstahl, fanno parte integrante del panorama multietnico della cittadina), che tra i Nuer del fiume Sobat.

Surveys che avrei comunque dovuto realizzare da solo. Perché la mia compianta amica Cecilia era dovuta rientrare a Roma da Khartoum. 

E che comunque non si svolsero, per la “difficile situazione in cui versa tutto il medio corso del fiume Sobat e l’area di Nasir, a causa delle frequenti scorribande di elementi Anya-Nya - guerriglieri -, che non disdegnano di assaltare autoveicoli arabi e della polizia, provocando morti e feriti.

Ricomparsi nel 1979, in coincidenza con la mia prima ricerca sul campo, gli Anya-Nya hanno ricevuto vitalità dalla diatriba politica provocata dalle recenti scoperte petrolifere nell’ambito della Regione Autonoma Meridionale. 

Guerrieri Anya-Nya ("veleno di serpente")

Durante la mia ultima permanenza nel Nilo Superiore si erano verificati anche assalti a camion, che percorrevano la pista, che collega Malakal a Khartoum, a sud della città di Renk. 

Quindi, nonostante avessi a disposizione due preziosissimi fusti di benzina (…) ho forzatamente dovuto rinunciare ai surveys, poiché non è stato possibile ottenere qualsivoglia fuoristrada in dotazione alle pochissime agenzie internazionali operanti in città. 

Mentre il commerciante arabo, che detiene il monopolio dei pochi mezzi privati funzionanti in città, non ha voluto affittarmi un autoveicolo. Terrorizzato sia dall’idea di perderlo, che di avere l’autista (arabo) ferito o ucciso. Non nascondendo, per giunta, di temere per la mia stessa incolumità.

Altro punto del rapporto, forse ancora più interessante del precedente, è il 4:

Anche durante l’ultima sessione di ricerca [1980-81] ho avuto modo di constatare come la situazione locale, nonché quella dell’intera regione meridionale, fosse precaria e certamente al limite, in particolare nei confronti dei pochi residenti europei (missionari, fratelli laici, volontari, esperti) (…)
 
In una situazione del genere le  difficoltà che si incontrano giornalmente, direi passo passo, diventano enormi, spesso insormontabili ed ogni nuova acquisizione di dati, di elementi utili per comprendere il mondo che circonda chi si “immerge sul campo”, come l’antropologo che adopera l’osservazione partecipante come tecnica fondamentale di ricerca, costa, e molto, in termini di fatica, privazioni, ecc. 

Vanno superate epidermiche reazioni di diffidenza e persino di ostilità, quasi a livello istintivo, da parte di coloro che vengono in contatto con l’operatore della cultura, e ciò anche se in ogni modo ci si sforza di mantenere la calma e la predisposizione verso gli “altri”, che non “capiscono”. 

Del resto è chiaro, è umano, che in un situazione di perenne crisi esistenziale, qual è quella che giorno per giorno vive la stragrande maggioranza dei cittadini: 
(a) scarsità di cibo, fino ad arrivare a periodi di carestia e, quindi, alla morte per fame; 

b) isolamento geografico della città, anche a causa della lunga e pesante stagione delle grandi piogge

c) tribalismo urbano (durante il mio ultimo soggiorno per futilissimi morivi sono stati uccisi in pieno centro uno Shilluk e un Jellaba (arabo), proprio quando uno dei miei assistenti di ricerca, anch’egli Shilluk, si trovava in quei paraggi per lavoro, ecc.), risulta veramente difficile, quasi “pazzesco”, cercare di capire un khaga (bianco del nord), che continua a porre domande e ad osservare come la gente vive, lavora, o si ubriaca con la merissa e l’arachi [più forte]. 

Certamente non hanno torto se, a volte, si rifiutano di ascoltarmi o cacciano in malo modo uno dei miei assistenti africani. Potrei sempre essere identificato per una spia del governo, e simpatizzare, od essere io stesso un “odiato” Northener Jellaba

Dall’altro lato, quello governativo e dell’amministrazione, si colloca una simmetrica diffidenza. 
Sembra veramente strano e sospetto che un europeo, un italiano che non sia un missionario, vada a stare male laggiù, solo per porre domande – a volte senza senso apparente – alla gente, o per vedere come gli abitanti riescono a sopravvivere e a non morire in un posto dove c’è molto poco o niente, se non la miseria, la fame e il caldo ossessivo.

Malakal, particolare di un mercato, 1979 (© Franco Pelliccioni)

Un altro mercato di Malakal, 1979 (© Franco Pelliccioni) 

Il fatto che quella del 1980-81 fosse la continuazione e l’approfondimento di un’analisi antropologica iniziata nel 1979, ha fatto sì che dalla maggior parte dei cittadini di Malakal, comunque avvicinati, nonché da diversi settori dell’amministrazione locale, ci fosse un po’ di tolleranza, se non di simpatia, a volte perfino di stretta ed amichevole collaborazione, ai fini del buon esito della mia ricerca.

In piroga con i miei due assistenti Shilluk e due pagaiatori, anch'essi Shilluk, alla ricerca di testimonianze storiche lungo il Nilo Bianco, 1980 (© Franco Pelliccioni) 

Se ci sono stati rischi per la mia incolumità, essi sono venuti in particolare nel villaggio nei pressi di Tawfikyya [insediamento abbandonato, all'inizio del XX secolo aveva 300 abitanti ed era la residenza di un Mamur egiziano], ma si trattava solo di guerrieri Shilluk ubriachi ed esaltati. In possesso di lance acuminate, si sono sentiti in grado di disturbare la raccolta di informazioni storiche che andavo raccogliendo su quella località.

(…) altre difficoltà hanno contribuito a rendere incandescente, il momento della ricerca:

1)    Il problema delle frontiere tra le regioni del nord, arabe od arabizzate, e la regione autonoma meridionale. Con un colpo di mano parlamentare le aree petrolifere del sud dovevano passare al settentrione. Ho avuto modo di apprendere come, poco prima del mio arrivo a Malakal, ci doveva essere un ammutinamento delle truppe negre di stanza nei settori meridionali, previa uccisione degli ufficiali arabi. Fortunatamente non è avvenuto;

2)   Il problema del contrabbando di armi, anche pesanti, nelle regioni meridionali, provenienti da elementi del disciolto esercito ugandese di Idi Amin penetrati illegalmente in Sudan. 

GGià parecchi mesi prima del mio arrivo c’erano state diverse razzie e contro-razzie di bestiame, ad opera di nomadi equipaggiati con armamento automatico, che avevano causato numerose perdite di vite umane.

InInfine ricordo i tradizionali contrasti tra Nuer, Dinka e Shilluk, tanto da provocare l’indizione di una conferenza dei capi dei vari gruppi tribali, con la partecipazione dei Commissioners governativi. 

 














 

domenica 21 agosto 2022

57. IL RAPPORTO NATURA-CULTURA TRA I POPOLI A "TECNOLOGIA SEMPLICE": CACCIATORI-RACCOGLITORI, COLTIVATORI, ALLEVATORI

 

Boscimani (San) della Namibia, 2017 (CC Some rights reserved, Rüdiger Wenzel) 

IN OCCIDENTE E NEL TERZO MONDO

Come ben sappiamo, il rapporto che da secoli si è instaurato nel mondo euro-occidentale tra natura e cultura, tra l'ambiente e l'uomo, è stato solo di tipo conflittuale: dominazione, sfruttamento, consumo, rapina, sia concretamente, nei fatti, sia negli atteggiamenti culturali (ideali, mentali). Come antropologo non posso che concordare con quello che altri: ecologi, geografi, sociologi, economisti, filosofi, storici, hanno già, e da tempo, individuato come un assioma storicamente determinatosi. Il mio compito adesso è quello di dare voce anche alle culture "altre", cioè ai popoli e alle culture del Terzo Mondo, per vedere più da vicino quello che risulta essere anche il loro rapporto uomo-natura. In proposito va premesso quanto segue: in un mondo superdegradato e in preda a mille angosce e paure esistenziali, qual è il nostro, non possiamo ritenere che i popoli "diversi da noi" (cacciatori-raccoglitori, coltivatori e nomadi pastori) abbiano un rapporto di tipo idilliaco con la natura. Da molte parti e da diverso tempo stiamo assistendo ad una sorta di rinascita del mito del bon sauvage, quasi sempre connesso e mirato, oggidì, all'ambiente che lo circonda. Altre volte, come nel caso dell'indio amazzonico, in toto. Alcune osservazioni sono perciò d'obbligo e successivamente, parlando delle problematiche ambientali, saranno riprese e ulteriormente puntualizzate.

I "nuovi" miti attraverso le lenti dell'Occidente

Non credo che sia il caso di mitizzare il rapporto uomo-natura, esistente tra i cosiddetti "primitivi", come in altre epoche si è idealizzato lo stesso "selvaggio". Molto semplicemente si può affermare come l'uomo, sempre e dovunque, abbia visto il contesto ambientale come un contenitore da sfruttare, onde poter sopravvivere. Ma ci sono delle differenze in questo, alcune fondamentali, altre d'importanza secondaria. Vediamo ora quali siano. Raggruppando i gruppi a "tecnologia semplice", secondo la classica tassonomia, che si basa sull'attività economica perseguita: cacciatori-raccoglitori, coltivatori, allevatori.

Il rapporto natura-cultura presso i popoli cacciatori raccoglitori

"Il mio cuore è tutto felice, il mio cuore si gonfia nel cantare, sotto gli alberi della foresta, la foresta che è la nostra casa e la nostra madre" (canto dei pigmei Mbuti dell'Ituri, Zaireda TURNBULL C.M. 1978, Man in Africa, London: Pelican Books)

"La foresta è un padre ed una madre per noi e come un padre ed una madre ci dà ogni cosa di cui necessitiamo - cibo, vestiti, riparo, tepore... e affetto. Normalmente ogni cosa va bene, perché la foresta è buona con i suoi figli, ma quando le cose vanno male ci deve essere una spiegazione" (detto da: Moke, pigmeo Mbuti) (da: TURNBULL C.M. 1977 (1972), Il popolo della montagna)

Paul Schebesta con due uomini Mbuti- World Museum Vienna, Austria - CC BY-NC-SA. 

https://www.europeana.eu/item/15504/VF_62288

Le bande - o gruppi con un massimo numerico di individui tale da consentire lo sfruttamento ottimale dell'ambiente circostante - di cacciatori-raccoglitori, sparse in diverse aree del pianeta, esercitano un'attività economica, che è di tipo acquisitivo puro e semplice. Cioè, come potremmo dire noi occidentali, non produttivo ma parassitario. Esse utilizzano ciò che si trova nell'ambiente: radici e tuberi, frutti spontanei e vermi, insetti, miele selvatico e selvaggina. In una parola tutto ciò che è commestibile. Altre volte si aggiungerà, praticata nelle radure delle foreste, anche un tipo di orticoltura semi-spontanea. Il rapporto natura-cultura tra questi popoli (indios amazzoniciboscimani del Kalahari, aborigeni australianieschimesi (Inuit)pigmei asiatici e africani, ecc.) potrebbe essere definito di tipo armonico, anche se certamente non è idilliaco. Come ben sanno gli etno-antropologi, in particolare coloro che hanno direttamente studiato e perciò hanno condiviso, per un periodo della loro vita, il ritmo esistenziale di queste popolazioni, tra le mille difficoltà di ogni giorno: nella caccia, nel reperimento dell'acqua da bere, nei lunghi, pericolosi e faticosi spostamenti, ecc....

Ho detto che si prende ciò che si trova e per farlo bisogna sapere dove, come, quando, e che cosa poter prendere... Questi gruppi umani hanno una conoscenza del territorio, delle piante e degli animali, estremamente particolareggiata. Qui etnoscienza ed etnomedicina sono assai sviluppate.

Il rapporto natura-cultura presso i popoli coltivatori della savana e della foresta

"Hii saa Brii Mau-Yaang Gôo", "abbiamo mangiato la foresta della pietra genio Gôo"(...) indica a Sar Luk [villaggio Mnong di Yoo Sar Luk, Vietnam] l'anno 1949, o più esattamente l'anno agricolo che va dalla fine di novembre del 1948 ai primi di dicembre del 1949 (...)

Divora, o Fuoco fino al midollo, divora le foglie fino all'anima. Io imito l'Antenato di un tempo, imito la madre di ieri, imito l'Avo di altri tempi. Mi hanno insegnato a soffiare il fuoco dei Rnut: così io soffio. Il fuoco dei Rnoh mi è stato insegnato ad accendere, così io lo accendo (...) Io taglio il figlio della Pianura, ad imitazione degli Antenati; abbatto il figlio dell'Albero, ad imitazione degli Antenati; dissodo la foresta e la boscaglia ad imitazione degli Antenati" 

(da CONDOMINAS G. 1960, Abbiamo mangiato la foresta, Milano: Baldini e Castoldi)

Villaggio Mnong, Vietnam, 2016 (CC, Some rights reserved, Clover9527)

Sono popoli che con la natura hanno un rapporto che dovrebbe essere di tipo conflittuale, nel "concreto". Anche perché la tradizionale metodica che impiegano è quella dello slush and burn, cioè del taglia e brucia. È così che, anno dopo anno, numerosi gruppi umani si "mangiano" letteralmente intere sezioni di foresta o di savana. Spostando continuamente i propri insediamenti fino a che, alla fine del ciclo, dopo un certo numero di anni, si ricomincerà nuovamente a lavorare sul primo terreno.

Il legame che si instaura con la natura è però mitigato da molti fattori culturali: gestione comunitaria dell'attività coltivatrice, dettata dal possesso (e non dalla proprietà) degli appezzamenti dei terreni.

La terra presso questi popoli è la "Madre Terra". Cioè là dove sono sepolti gli antenati e dove torneranno gli individui di tutte le generazioni, presenti e future. È sempre la Terra che darà, anno dopo anno, i buoni frutti dei raccolti.

La terra, a causa di questa sua "doppia" sacralità: la terra che sfama i vivi e che accoglie nelle sue braccia i defunti, appartiene di norma alla comunità, all'intera comunità. Solo il possesso rimane agli individui per l'uso esclusivo della coltivazione.

Quando la cooperazione internazionale ebbe l'idea di creare nei PVS (paesi in via di sviluppo) [in seguito saranno anche definiti in "via di sottosviluppo"…!], il sistema cooperativistico, allo scopo di sfruttare più efficacemente i terreni agricoli secondo il punto di vista europeo, non ha fatto altro che sfondare una porta già completamente aperta. Da sempre!

Albert Abril in Amazzonia con una famiglia Zo'è, 2007 (CC, Some rights reserved: Albert Abril)
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Il giornalista catalano Joan Albert Abril i Pons, corrispondente di guerra, documentarista e regista, già docente universitario, ha effettuato diverse spedizioni tra le tribù indie amazzoniche contattate negli ultimi anni da missionari e dal Funai brasiliano: Xipaià (1999), Kaiapó (1999), Araweté (1999), Sateré-Mawé (2003), Zo'è (2007-2010), Ero completamete all'oscuro dell'esistenza di questo piccolo gruppo indio del Parà, Un nome che immediamente non potevo che associare alla striscia a fumetti di "Arturo e Zoe", letti da bambino. D'altronde il primo contatto con il mondo esterno di questi indios risale solo al 1982 e quello "definitivo" al 1987. L'etnonimo significa "noi". 
Queste due foto sono le uniche che è possibile pubblicare, poichè prive di copyright. Anche se alcuni diritti sono riservati (i nomi degli autori). 


Due donne della tribù Zo'é dello Stato brasiliano del Pará, 2013 (CC Some rights reserved: Danielzsilva
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Facendo ulteriori ricerche sul Web, sia su Abril (su Wikipedia figura anche come April...), che su questo gruppo etnico, mi sono imbattuto su un articolo pubblicato a gennaio. Il suo titolo, ma soprattutto l'immagine d'apertura del "pezzo", mi suonava invece molto famigliare... Perchè il fatto mi aveva allora commosso! Anche i nostri telegiornali l'avevano riportato. Certo non sapevo,  allora, come i due indios visti in televisione appartenessero proprio all'etnia Zo'é. 

Il loro è stato uno straordinario caso di amore filiale: Tawy   ha infatti portato sulle spalle, per farlo vaccinare contro il Sars Cov 2, il padrsessantasettenne Wahu. Impossibilitato a camminare, a causa della sua artrosi alle ginocchia. Attraversando la giungla, guadando fiumi, salendo sulle colline. Un tragitto durato, tra andata e ritorno, ben dodici ore,   

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È stata invece l'introduzione, ai tempi del colonialismo, di un sistema economico basato sul mercato e sulla moneta, e quindi anche sulla proprietà individuale, sull'imposizione delle tasse e sull'enorme diffusione della monocoltura, utile al mercato metropolitano, a creare una falla, tuttora aperta, in molte aree del mondo, che solo l'"innovatrice" idea delle cooperative ha contribuito, in qualche modo, a tamponare. Ritornando, sia pure in parte, alle antiche, tradizionali concezioni della terra comunitaria.

Ho sostenuto come questi popoli abbiano un rapporto conflittuale con l'ambiente, anche se le tecnologie tradizionalmente impiegate, nei tempi tradizionali (a parte i diboscamenti, che oggi non sono cosa da poco), in realtà non recano gravi danni all'ambiente.

Si può altresì affermare come i gruppi umani dediti alla coltivazione facciano ricorso alle istituzioni magico-religiose al fine di instaurare idealmente e ritualmente, cioè culturalmente, un rapporto diverso, in fondo più rispettoso dell'ambiente. Le rappresentazioni individuali e collettive dei coltivatori, nonché gli elementi magico-religiosi da essi "attivati", denotano, quindi, una forma rispettosa della natura.

In conclusione, se da un lato l'ambiente viene forzato con tagli, incendi, diboscamenti, dissodamenti, ecc., dall'altro la cultura cerca di porre idealmente riparo alle "ferite" inferte. Utilizzando altri strumenti, non tecnologici, ma cultuali, rituali. Facenti sempre parte della medesima cultura alla quale appartengono singoli individui e gruppi.

Il rapporto natura-cultura: presso i popoli nomadi "puri" e transumanti

"Ring Giir, Il Grande Biancofiore, Mio padre Ring, fu chiamato da suo padre. Egli lo fece sedere al suo fianco, lo carezzò e gli disse queste parole: "Figlio, Ring, là c'è il bestiame, O figlio, il bestiame è la prosperità dell'uomo. Mio Nonno aveva un wut (cattle camp), il suo campo divenne ricco di mandrie e di uomini, le stelle si riempirono di vacche..." (canto dei Ngok Dinka, Sud Sudan)

(da: DENG F.M. 1971, Tradition and Modernization. A Challenge for Law among the Dinka of the Sudan, New Haven and London: Yale University Press)

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Nel marzo del 1979 a Khartoum ero in attesa di recarmi nella cittadina meridionale di Malakal, ad 850 km più a sud. Dapprima attraversando il deserto in jeep per un’intera giornata, poi risalendo il leggendario Nilo Bianco, a bordo di un vetusto battello a pale posteriori, per quattro fantastici giorni.


Tra i miei numerosi impegni e incontri programmati a Roma (Ambasciata, Alitalia, Agip, Università, Missionari), era previsto che incontrassi, per via protocollare, il Ministro di Stato per gli Affari Esteri Sudanese nel suo Ufficio. Grazie all’interessamento, sia dell’Ambasciata del Sudan a Roma, che di quella italiana a Khartoum. Non per un fatto meramente elitario o snobistico. Ma perché il Ministro, oltre ad essere lui stesso un antropologo, era il massimo interprete del popolo dei Dinka, al quale appartiene. Suo padre, Majok Deng, era il Paramount Chief dei Ngok Dinka del Kordofan.

Ma Francis Mading Deng (1938- ), autore del libro da me sopra citato, era ed è stato molto più di un antropologo. Perché è stato un diplomatico (Ambasciatore del Sudan in Canada, Stati Uniti, Danimarca, Finlandia, Norvegia, Svezia), uno scrittore, un politico e, dal 2012 al 2016, primo Ambasciatore del Sud Sudan (indipendente dal 2011) all’ONU. Ha studiato e si è laureato in diverse Università. Come quella di Khartoum, Yale (USA)il King’s College e la School of Oriental and African Studies di Londra. Infine ha scritto oltre una trentina di libri: giuridici, sui diritti umani, di antropologia e folklore, storici, politici. Nel 1979 in suo cursus honorum era già abbastanza ricco. Certo non come oggi…


Quello straordinario incontro di decenni fa è stato invero emozionante per il giovane studioso. Davanti a me avevo una figura che riusciva bene ad incarnare la tradizione della propria gente, coniugandola con la modernità. Collegando il passato al presente. Ma soprattutto al futuro. Come poi si verificherà puntualmente. Allorché il Sud Sudan diverrà finalmente indipendente. Nonostante tutti i sofferti e travagliati trascorsi storici.


Interessato al mio precedente studio sulla cittadina kenyota di Isiolo, fu prodigo di consigli su Malakal. Altra cittadina multietnica e multiculturale. Dove convivevano, allora pacificamente, le genti del Sud, come i Nilotici allevatori Dinka, Nuer, Shilluk, Anuak, ma anche i Nuba del Kordofan. Oltre agli arabi (od arabizzati) del Nord.

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Uomini Dinka con lance, collane e bracciali, Kodok, Sud Sudan
                       The Swedish Rhodesia-Congo Expedition (1911–1912): Rosen, Eric von  (1912). Från Kap till Alexandria: Reseminnen från svenska Rhodes.The National Museums of World Culture (Världskulturmuseerna)Stockholm / Göteborg
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Eric von Rosen (1879-1948) è un personaggio a dir poco singolare. Infatti è un ricco conte. Possiede il castello di Rockelstad (XIV secolo). È pilota d'aereo. Sarà addirittura il futuro cognato di Göring. Ma è anche un esploratore ed etnografo. Dopo aver effettuato nel 1900 una spedizione in Lapponia, partecipa alla Spedizione Svedese Chaco-Cordillera, 1901-1902: Argentina-Bolivia) diretta da Erland Nils Herbert Nordenskjöld, figlio del grande esploratore artico Nils Adolf Erik Nordenskjöld, Missione che riceverà anche il suo prezioso patrocinio. Nel 1909 effettua un’altra spedizione dal Capo ad Alessandria, marciando quasi sempre a piedi. La foto si riferisce invece a quella organizzata nel 1911-12, per studiare i poco conosciuti pigmoidi Batwa nei pressi del lago Bangweolo, al confine con il Tanganyika (oggi Tanzania).

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Ragazza Dinka, ca. 1877-1880, di Richard Buchta (Pitt Rivers Museum, Oxford)

Quello che è stato detto per i coltivatori, può essere esteso ai gruppi umani che si dedicano ad un'economia di allevamento. Essi sfruttano i prodotti forniti dagli animali (latte, sangue, sterco) e gli animali stessi, sia morti (carni e pelli) che vivi (trasporto), e utilizzano i territori percorsi: stagionalmente (transumanza), ciclicamente (pastorizia seminomade) o semplicemente "itinerante" (pastorizia nomade), per sfruttare fino in fondo tutte le possibilità di pascolo ivi localizzate.

Anche presso questi popoli ci sono meccanismi culturali autogiustificativi e discolpanti del proprio comportamento nei confronti della natura, che fanno sì che essi vengano ritualmente attivati (medianti sacrifici et alia), allo scopo di rimanere, sia pure idealmente e, quindi, culturalmente, in armonia con l'ambiente e con il mondo animale e vegetale, che dà loro modo di sopravvivere.

In conclusione

I tre "tradizionali" approcci dei popoli "altri" all'ambiente ci mostrano un rapporto e un'interazione che non è mai di totale sfruttamento, nel concreto e idealmente. Nei confronti della natura non esiste una mentalità, un atteggiamento che è sempre e solo di competizione, di rapina, di mero sfruttamento.

Se da una parte si acquisiscono i prodotti del sottobosco, del bosco, delle steppe semi-desertiche e del deserto - sabbioso, roccioso, ghiacciato - (animali, vegetali), dall'altra si raccolgono i prodotti della coltivazione e dell'allevamento.

Nel primo caso la relazione con la natura è di rispetto, sia concreto, che "ideale", mentre negli altri due esiste una qualche discrasia tra l'agire concreto (negativo) e ideale (positivo). Il rispetto è solamente ideale.

Il Lanternari dedicò un interessante e corposo studio alle feste cosiddette di Capodanno presso i popoli cacciatori, pastori e coltivatori. Esse mostrano chiaramente quanti e quali siano, e in quali occasioni vengano attivati, gli strumenti culturali e rituali delle varie popolazioni. Ne discende che il rapporto uomo-natura e cultura-natura, spesso anche conflittuale, trova sempre una sua catartica armonizzazione, grazie alla ricomposizione di ogni "pedina" nell'ampio alveo della tradizione e della cultura (LANTERNARI V. 1976 (1959), La grande festa. Vita rituale e sistemi di produzione nelle società tradizionali, Bari: Dedalo Libri).

Da: "UOMINI, GENTI E CULTURE DEL "VILLAGGIO GLOBALE". UNA LETTURA ANTROPOLOGICA DELL'AMBIENTE". La versione integrale è reperibile su: 

https://www.researchgate.net/publication/344854777_UOMINI_GENTI_E_CULTURE_DEL_VILLAGGIO_GLOBALE_UNA_LETTURA_ANTROPOLOGICA_DELL'AMBIENTE?_sg%5B0%5D=xR_sAXkpyLdirfcqO6kf7f3nXVsykH5ROp2O9QZN8NVmOjn-QI9NI0Gg7AZ5GtTiufZ-ybIuumZ0HYsvjDEGyGmb404NF5V_NxNsRzsq.IldbcG9wxP3qd4cF3TuI8CnrYV_HYMSb2dPpfO8inwcALgg2StziIG1diiMs1KQHIWQuy6v_9UFymrP9-b3hgQ

61 personaggi, oltre ad una spedizione antropologica intercontinentale, svoltasi tra America del Nord e Asia a cavallo tra il secolo XIX e XX, figurano nella mia trilogia: LE GRANDI AVVENTURE DELL’ANTROPOLOGIA (Antropologi culturali, sociali, fisici, applicati, etnologi, etnografi, etnomusicologi, etnostorici)

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