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venerdì 28 giugno 2024

157. GLI IMPRESSIONANTI FARAGLIONI DI STAC LEE, STAC AN ARMIN E BORERAY. DOVE PER SOPRAVVIVERE, RISCHIANDO OGNI VOLTA LA VITA, UOMINI (E DONNE) DI ST KILDA SI ARRAMPICAVANO PER CATTURARE UCCELLI MARINI E RACCOGLIERE UOVA. Da: NELL'ARCIPELAGO DEGLI “UOMINI-UCCELLO” DI ST KILDA. VITA E MORTE DI UNA REMOTA COMUNITÀ' SCOZZESE

 

 Lo Stac an Armin. lo "scoglio del guerriero": il più alto del Regno Unito (© Franco Pelliccioni) 

Premessa

Per molti anni (dal 1995 al 2012) ho collaborato alla storica Rivista Marittima, pubblicando anche un supplemento sull’isola di Creta, oltre che al Notiziario della Marina. Inoltre sono stato onorato più volte dei Patrocini che lo Stato Maggiore della Marina Militare mi ha concesso per le ricerche condotte in Atlantico (tra il 1982 e il 1998), nell’ambito del mio Programma sulle Comunità Marittime dell’Atlantico del Nord.

UNA COMUNITÀ' DI “UOMINI-UCCELLO”

Per tentare di descrivere l'intima essenza della comunità marittima di St Kilda ["un remoto pugno di isole, avanzi di un vulcano attivo 60 milioni di anni fa, in pieno Oceano Atlantico, difficile da raggiungere.  Oltre tutto, non è detto che vi si possa sempre sbarcare. A causa delle precarie condizioni meteo-marine e all'assenza di un sicuro, protetto ancoraggio, che spesso sconsigliano l'ormeggio nella Village Bay, nell'isola di Hirta"], dovrei impiegare un termine ormai desueto che, pur con la sua inevitabile approssimazione, secondo me rende bene l'idea: “comunismo". Pascoli, animali e terreni coltivati erano, infatti, di "tutti". Tanto che dopo qualche anno con il runrig i terreni venivano "girati" di famiglia in famiglia.

La storia di St Kilda in quest'ultimo secolo e mezzo ci parla di una comunità fortemente solidaristica e tenacemente attaccata alla tradizione, dove il baratto faceva aggio sulla moneta. Ma destinata a collassare a causa dell'accelerazione indotta da una mutazione culturale giunta dall'esterno. Prima da naviganti e pescatori, poi dai pastori protestanti, infine dai turisti, dai funzionari governativi britannici e da altri agenti di cambiamento: insegnanti, infermiere.

Provocando, infine, un inarrestabile processo di deculturazione… E la sua morte!

(…) Era una comunità marittima, sì, i cui membri preferivano però cacciare e catturare gli uccelli marini, che vi si trovavano in grandissima quantità.

E catturarli non era impresa facile. Anzi difficilissima e rischiosissima, che ogni volta metteva in gioco la vita degli “uomini-uccello”.

Sia quando scalavano le scogliere o i faraglioni, ma ancora prima. Quando dalla barca dovevano cercare di raggiungere le rocce, ad esempio degli Stacs.  

Così quello dell’uccellagione era mestiere che si imparava fin da giovanissimi. Una sorta di “rito di passaggio” all’età adulta (…)   

Martin Martin [nato a Skye, fu precettore nella famiglia dei MacLeod, proprietari di St Kilda. Nell’estate del 1697 accompagnò il ministro (del culto) di Harris, John Campbell, nell’annuale visita all’arcipelago. Scriverà la prima dettagliata relazione sulla vita nelle isolenel 1697 rilevò che “il loro principale nutrimento deriva dalle gigantesche colonie di uccelli marini, che popolano le scogliere dell’isola e i vicini faraglioni. Non solo raccolgono le uova di sule e di procellarie, ma catturano e mangiano gli stessi uccelli. Per fare ciò costruiscono corde che calano per centinaia di piedi lungo le scogliere di Hirta [la sola grande isola abitata (…) allora possedevano solo tre corde lunghe ciascuna 144 piedi [ca. 44 m] (…) si arrampicano a piedi nudi e, in fare ciò fin dalla fanciullezza, sviluppano caviglie e piedi, che bene si adattano al loro compito”.

Dagli uccelli traevano quasi tutto il loro sostentamento. Nel 1876 gli isolani presero 89.600 puffini per la carne e il piumaggio. Tramite il baratto, prima e la vendita, ben più tardi, riuscivano ad ottenere anche ciò di cui avevano bisogno, dal chiodo alla farina.

Degli uccelli si usava tutto: carne, piume, ossa, olio, ecc. Oltre alle uova, raccolte sulle pareti scogliose, i St Kildani si cibavano dei volatili, anche affumicati. L'olio delle procellarie serviva come prezioso combustibile, ma anche contro i reumatismi, gli arti pesti o doloranti, e come purga ed emetico (…)    

Tutto ciò sarebbe andato avanti per un lunghissimo tempo. Fino a quando, sul finire del XIX secolo, la domanda di tali generi cessò del tutto. Contribuendo, in tal modo, al tracollo finale della comunità.

Il denaro negli anni seguenti sarebbe arrivato nella comunità dai turisti di passaggio, dalla carità e (poco) dalla vendita di tweed, dal 1900 diventato l'unico prodotto di St Kilda.

GLI IMPRESSIONANTI FARAGLIONI DI STAC LEE, STAC AN ARMIN, BORERAY

   Quando si naviga intorno a questi grandiosi e terrificanti scogli rocciosi è praticamente impossibile immaginare come gli abitanti di St Kilda riuscissero a scendere a terra dalle loro barche.

Non solo usavano corde artigianali, ma uomini e donne riuscivano a scalare questi straordinari faraglioni. Portando poi via barili di uova e uccelli dalla sommità, fino al villaggio di Hirta.

Spedizioni che potevano durare anche diversi giorni. Per cui “uomini-uccello” (e donne) avrebbero dovuto pernottare dentro piccoli ripari (bothies) su quei giganteschi pinnacoli. 

Lo scoglio più grande [tanto da essere considerato un isolotto], Boreray, è un gigantesco cuneo. Verticale sui tre lati e molto scosceso, ma ricoperto d’erba sul quarto. Qui nel tempo furono costruiti numerosi cleitean per depositarvi temporaneamente quanto raccolto (uccelli, uova, ecc.).

Dopo che il gruppo di uccellatori toccava terra, la barca rientrava ad Hirta, per tornare a recuperarlo dopo diversi giorni.

 Ecco come si “approda” a Stac Lee
(Norman Heathcote, "Climbing in St Kilda", Scottish Mountaineering Club Journal, vol. 6, 5, maggio 190
1)

Stac Lee, anche se meno elevato dei due scogli, è il più impressionante dal punto di vista alpinistico. Poi, osservando con attenzione, meglio se (onde permettendo) con un binocolo, si può intravedere nei pressi della sommità, sulla sinistra, l’ingresso al bothy, che può accogliere solo un paio di persone.

NEL 1876 IL GIORNALISTA BRITANNICO JOHN SANDS SCALA, ASSIEME AGLI “UOMINI-UCCELLO” DI HIRTA, L'ISOLOTTO DI BORERAY. ARRIVANDO FINO A 243 METRI DI ALTEZZA  

 Il giornalista John Sands, ritornato a St Kilda nel 1876, racconta: “il 29 giugno andai con un gruppo di diciotto, tra uomini e ragazzi, con la nuova barca [che aveva fatto costruire per loro] all’isola di Boreray. Tutti gli uomini, meno due, ai quali fu lasciato il compito di prendersi cura dell’imbarcazione, si arrampicarono sulla scogliera. Fui tentato di unirmi a loro. Con il capo di una corda attorno alla cintola, tenuto da un uomo, che mi precedeva, mi arrampicai su tali sentieri, che si possono vedere solo negli incubi. Pensai che fosse meglio non guardare in avanti troppo lontano, ma fissare l’attenzione al terreno sotto i piedi. A volte dovevo ringraziare la mia guida, che toglieva di torno qualche difficile pezzo. Così che fui in grado di arrivare in cima. L’altitudine era probabilmente di 800 piedi [243 m], anche se le più alte rocce di questa isola superano il migliaio [304 m]. Alcune scogliere erano bianche per le sule. Tutti gli uomini si sparpagliarono, calandosi lungo i dirupi, per catturare le procellarie. Io fui lasciato sotto la sorveglianza di un giovane chiamato Callum Beag, o “Piccolo Malcolm”, che terrà sempre questo nome anche se crescerà fino a sei piedi [1,82 cm] (…) È tradizione dei St Kildani inviare ogni anno un gruppo di giovani donne nell’isola, per catturare puffini per le loro piume. Durante la mia prima visita [1875] sono andato con un gruppo del genere a Boreray e le ho viste al lavoro. Sollevando i piccoli dai buchi nella torba, i curiosi uccelli (chiamati Tammie Nories in alcuni posti) hanno bisogno di essere scansati per essere catturati. Poi bisogna essere molto attenti nel tenerli, perché le loro beccate sono molto dolorose. Conoscendo le loro abitudini, le donne portano i cani, che allarmano i puffini, così da catturarli non appena svolazzano fuori dai buchi (…) Le ragazze collocano le corde di peli sul terreno, tenute ferme ad entrambi i capi da pietre. Cappi di crini di cavallo sono aggiunti alla corda, in modo che gli uccelli, che in numero incredibile frequentano l’isola, vi mettano le zampe. Così in un giorno alcune ragazze riescono a catturare fino a 4-500 puffini. Le giovani donne rimangono tutte sole nell’isola per circa tre settimane. Lavorando fino a che cadono addormentate. Ognuna ha con sé la Bibbia in Gaelico, che tutte leggono facilmente. Dormono con i vestiti che hanno indossato durante il giorno”.

……

Gli ultimi 36 abitanti del villaggio di Hirta furono evacuati dalla Marina britannica il 29 agosto del 1930:

Era un giorno foschioso, ma tranquillo.

Dalla mattina presto l’HMS Harebell, la nave che doveva trasportare gli isolani nelle nuove case, era all’ancora nella Village Bay. Con le pecore e le mucche via e i cani morti, l’evacuazione della gente poteva iniziare.

Si impacchettarono le ultime cose, i beni portati giù al molo, le casse caricate sull’Harebell.

La maggior parte dei mobili, letti, sedie, telai, come pure le barche, gli attrezzi agricoli e per l’intrappolamento degli uccelli doveva essere lasciato

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NELL'ARCIPELAGO DEGLI “UOMINI-UCCELLO” DI ST KILDA. VITA E MORTE DI UNA REMOTA COMUNITÀ' SCOZZESE

E-Book, I e II ediz. cartacea a colori 
(101 pp, 68 foto - 23 dell'A. -, bibliografia, 119 note) 


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TUTTI I DATI (ECONOMICI, STATISTICI, DEMOGRAFICI, ETNOGRAFICI, ECC.) CONTENUTI NEI MIEI LIBRI SONO STATI ACCURATAMENTE VERIFICATI, INTEGRATI E AGGIORNATI AL MOMENTO DELLA LORO PUBBLICAZIONE

lunedì 24 giugno 2024

156. LA "VALLE DELLA MORTE", UN’IMMENSA PIANURA DI SALE E FANGO SOTTO IL LIVELLO DEL MARE. CARATTERIZZATA DA UN CALORE INSOPPORTABILE, DAL CONTINUO SOFFIARE DI UN VENTO IMPETUOSO, DA ALTE DUNE DI SABBIA SAHARIANE. DOVE IL “MIRAGGIO” DI UN CASTELLO NEL DESERTO SI PUO’ IMPROVVISAMENTE MATERIALIZZARE DAVANTI AGLI OCCHI INCREDULI DEL VIAGGIATORE. DA: NEL WEST ATTRAVERSO LE MONTAGNE ROCCIOSE, IL SUD-OVEST, I DESERTI DELLA CALIFORNIA MERIDIONALE

 

 La Death Valley dal celebre "Zabriskie Point"
(© Franco Pelliccioni) 

Il deserto Mojave, nella California meridionale, è solo di passaggio nel mio viaggio in direzione di uno dei più incredibili luoghi della terra.

Un luogo che si trova in parte al di sotto del livello del mare, come il Mar Morto, e che nei mesi estivi rasenta - spesso superandole - temperature Sahariane (…)  

 A non molta distanza dal confine con lo Stato del Nevada, al di là di alcune montagne, dopo aver superato il paese di Shoshone e la città morta della Death Valley Junction, autentico biglietto da visita dell'area, arrivo infine nella Valle della Morte.

Resa celebre da numerosi films, non solo western. E uno sguardo d'insieme si ottiene proprio da Zabriskie Point, stupenda terrazza naturale resa famosa da un vecchio film di Antonioni.

Da qui posso avere un'idea della vallata longitudinale racchiusa dalle catene parallele dell'Amargosa e Panamint. Un'immensa pianura di sale e fango, intercalata da pozze di acque salmastre e imbevibili, (…) dall’aspetto indubbiamente lunare e un po' sinistro...

È questo un incredibile habitat, che può essere anche estremamente pericoloso. Specialmente durante i caldissimi mesi estivi.

Il record è del 1913: 55° all'ombra (…) Qui ci sono le temperature più alte del globo. Il calore al suolo raramente è al di sotto dei 65° C, ma può toccare anche i 93°. E i rigori di questo habitat si sono fatti sentire. Trentadue morti nel decennio a cavallo tra il XIX e il XX secolo. Non sempre a causa di qualche sfortunato incontro con una delle diciotto specie di serpenti esistenti, tra cui il velenosissimo serpente a sonagli.

 Quest'ambiente così "estremo", dal 1933 National Monument, era terra degli Shoshoni, che la chiamavano Tomesha, "terra a fuoco". Indiani che durante i mesi estivi si spostavano verso le zone montuose, per tornare nella vallata nel corso dei mesi invernali. Un'alternanza stagionale dettata dal clima, ma anche dalla disponibilità di acqua e cibo

 (…) Nel 1849 giunsero in questi paraggi i primi europei, nel corso del loro tragitto verso i giacimenti d'oro della California, appena scoperti.

Ventisette carri di una carovana decisero di effettuare una scorciatoia attraverso la vallata. Solo uno di essi riuscirà ad uscirne indenne. Dopo due mesi di enormi sacrifici e sofferenze, fatte di "fame, sete e un terribile silenzio", nonché qualche morto. Un'impresa così tremenda che, una volta messisi in salvo oltre le montagne, i superstiti con estrema efficacia battezzarono la regione come: la "Valle della Morte". La stessa incisività che ritroviamo in numerosi toponimi regionali: Funeral Mountains, Deadman Pass. Oltre a quelli che si riferiscono all'Inferno, al Diavolo o al nostro sommo poeta Dante.

 Tutta una serie di interessanti peculiarità attende ora il visitatore, che vi si è addentrato. Da un'autentica oasi, come Furnace Creek, dove prendo alloggio nel ranch, al cratere perfetto dell'Ubere (…) che porta il nome di una donna Shoshoni, che viveva nei pressi di quello che era sempre stato denominato: Duhvee'tah Wah'sas, il “cesto di Duhveetah”.

E ancora: il "Campo da Golf del Diavolo": ruvidi pinnacoli di cristalli di sale, alti fino a sessanta centimetri, che si allunga in una sezione della piana

Ecco quindi Harmony Borax Works, le miniere abbandonate di borace, il cui filone venne scoperto nel 1873, unitamente ad uno d'argento. Vi lavoreranno anche i cinesi tra il 1882 e il 1888

(…) Da non sottovalutare anche una visita alla zona (…) delle dune di sabbia "sahariane", alte fino a ventiquattro metri che, fin dai tempi di Rodolfo Valentino, hanno visto ritrarre su celluloide le infinite avventure di eroi e predoni del deserto.

Contribuendo ad alimentare clichés stereotipati ed eurocentrici su indomiti legionari, avventurieri senza scrupoli, sceicchi "bianchi", tagliagole senza pietà Tuareg.

E, come altrove durante tutto il viaggio, il vento continuerà a soffiare impetuosamente ad intermittenza. Sollevando nella Valle, visibili anche a parecchi chilometri di distanza, i temibili "Dust Devils"(…)

 E quanto ai miraggi? Qui non sono riusciti a fotografarli, come in Sudan o in Tunisia. Ma poco importa. Poiché ne esiste uno "reale", non immaginario… Comodamente osservabile nell'angolo nord-orientale della vallata, ventiquattro ore su ventiquattro.

In effetti, subito dopo una curva in salita nel Grapevine Canyon, a 914 metri d'altezza, l'improvviso aprirsi del paesaggio fa contemporaneamente apparire un'irreale e fantastica costruzione.

Un castello, ma sì... Ha torri merlate e ha un aspetto tra il fiabesco, il moresco e l'indubbio kitsch. Che solo l'eccentricità sfrenata di alcuni americani poteva pensare di realizzare in questo luogo solitario, sperduto e remoto, oltre sessanta anni addietro.

L'originale progetto prevedeva una torre dell'orologio, una piscina, quattordici camini e quattordici bagni, quattro cucine, una pompa di benzina e un impianto solare di riscaldamento dell'acqua.

È il castello di Scotty, alias Walter Scott (1872-1954). Cow boy del Kentucky, che prese parte al celebre Buffalo Bill Wild West Show anche durante la sua tournée europea.

Johnson e Scotty davanti al castello nel 1934


 Costruito tra il 1921 e il 1931, non fu mai ultimato (…) rimarrà solo un "castello nel deserto".

Nel 1970 lo acquisirà il National Park Service.

DA: Nel West: Attraverso le Montagne Rocciose, il Sud-Ovest, i deserti della California meridionale, E-Book, versione cartacea a colori (I e II ediz.) e in bianco e nero: 116 pp., 34 note, 76 foto (50 sono mie) 


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155. L’INCREDIBILE CROCIERA NERA DEL 1924-25: UN VAGABONDAGGIO NEL CONTINENTE AFRICANO SENZA UGUALI! DA: GRANDI RAIDS AUTOMOBILISTICI DELLA STORIA: QUANDO L’AVVENTURA SI FA LEGGENDA. LA PECHINO-PARIGI E LE “CROCIERE” CITROËN, TRA AFRICA, ASIA E AMERICA DEL NORD

 

 L’itinerario (National Geographic Magazine

(…) Citroën decide di giocare “grosso”. Il solo settore sahariano, il 
deserto, non è abbastanza vasto per sperimentare la sua sete di successo, di conoscenza, di pubblicità. Così, una volta brillantemente “archiviata” la transahariana, desidera che la futura destinazione delle sue macchine sia il continente africano. Sì, avete capito bene: proprio l’intero continente! Da nord a sud, dall’Algeria alla punta estrema del Capo di Buona Speranza.

Non solo… Perché va attraversato fin sulla costa dell’Oceano Indiano, e oltre. Per spingersi fino in Madagascar.

Un progetto del tutto audace, estremamente ambizioso, certamente temerario, che rasenta l’impossibile.

Ancora oggi, sembra incredibile possa essere stato realizzato da un manipolo di uomini, sia pure coraggiosi, pronti a tutto, sperimentati, competenti! Guidati sul campo dai soliti Georges-Marie Haardt e Louis Audouin-Dubreuil ed eterodiretti da André Citroën da Parigi.

 La Crociera Nera avrà una straordinaria ricaduta mediatica.

Anche perché il progresso della spedizione sarà attentamente seguito dal pubblico francese, giorno dopo giorno, grazie al T.S.F., il telegrafo senza fili.

Le finalità della Crociera Nera

 La prima, ovviamente, risiede nel pubblicizzare “l’attuale stato dell’arte”, cioè la superiore tecnica automobilistica delle macchine targate Citroën. In grado di affrontare, uno dopo l’altro, il caleidoscopio di ostacoli naturali che si troveranno davanti.

Perché dovranno cimentarsi su ogni sorta di rilievo (sabbia, pietraie, ecc.). Superando difficoltà di ogni genere, come quelle rappresentate dal guado di fiumi, l’attraversamento degli uidian sahariani, di zone paludose, boscaglie, savane, giungle e “chi più ne ha, più ne metta”…

 Un secondo obiettivo concerne l’esplorazione e la documentazione (scritta, fotografata, filmata) di terre e popoli spesso ancora sconosciuti al grande pubblico. In grado a loro volta di attrarre irresistibilmente l’interesse dei francesi alla ricerca del nuovo, del “diverso”, dell’esotico, forse anche del misterioso, che si sta sviluppando in Francia all’indomani della Grande Guerra.

D’altronde non è compito della Metropoli quello di portare progresso e civiltà, dove dominano i tradizionali usi e costumi africani?

In tal modo il pubblico transalpino sarà messo in grado di scoprire regioni dell’Impero coloniale (Africa Occidentale ed Equatoriale Francese) non altrettanto note, rispetto a quelle nordafricane e indocinesi.

Del resto l’Impero coloniale, già all’indomani della Grande Guerra, ha dimostrato come le sue immense risorse e la mobilitazione alle armi, e non solo, degli indigeni, siano state per la Francia di primaria importanza.

Tanto da stimolare un’opinione pubblica che, sul finire del XIX secolo, era stata più o meno indifferente alle grandi questioni coloniali. Mentre adesso le colonie attraggono, non solo avventurieri, esploratori e scienziati, ma anche imprenditori e uomini d’affari.

 Ecco perché nasce la Crociera Nera, in origine chiamata Citroën CentreAfrique. Raid che riuscirà ad appagare i desiderata di Gaston Doumergue, Presidente della Repubblica, che intende stabilire un regolare collegamento intercoloniale fin nella Grande île, la lontanissima isola del Madagascar.

Partendo da Colomb-Béchar, in Algeria, e giungendo fino a Tananarive.

Inaugurando una regolare linea automobilistica, che oltrepassa la colossale barriera naturale del Sahara, che si frappone tra Nord Africa e le altre regioni dell’Impero Coloniale francese.

I partecipanti

 Alla fine la missione sarà aggettivata come economica, umanitaria, scientifica e culturale. 

In effetti si tratta di un’autentica esplorazione scientifica dell’Africa, alla quale parteciperanno studiosi scelti dalla Società Geografica Francese, dal Museo di Storia Naturale di Parigi, dal Ministero delle Colonie francesi, dal sottosegretario all’Aeronautica, che offriranno anche il loro supporto.

 Il gruppo è composto da sette esploratori e nove meccanici.

Oltre a Georges-Marie Haardt e Louis Audouin-Dubreuil, con loro c’è anche Henri Bettembourg (1882-1926), comandante della fanteria coloniale e cartografo.

Gli studi etnografici sono affidati al pittore Alexandre Jacovleff. Riporterà 300 disegni e 100 dipinti.

Il pittore russo Jacovleff all’opera nel villaggio Mangbetu del capo Ekibondo, Congo Belga

L’aspetto zoologico e patologico è compito del medico-tassidermista Eugène Bergonier, già professore nella Scuola di Medicina dell’Africa Occidentale Francese (…).

Le ricerche geologiche e mineralogiche, nonché la gestione meccanica della spedizione, si delegano all’ing. Charles Brull.

La parte cine-fotografica viene svolta dal regista Léon Poirier (1884-1968) con l’operatore Georges Specht.

Giorno dopo giorno i due realizzeranno il diario della spedizione, la Crociera Nera”, film muto di oltre un’ora, che mostrerà agli spettatori entusiasti le bellezze dell’Impero.

In totale filmeranno 27.000 m di pellicole e scatteranno 8.000 foto di straordinario valore documentaristico ed etnografico. Così come desidera la Società Geografica francese, che ritiene che: “il compito più urgente che oggi come oggi spetta a tutti i viaggiatori sia di registrare con tutti i mezzi possibili, specialmente con la fotografia e il cinema, tipi antropologici e costumi”.

Da: GRANDI RAIDS AUTOMOBILISTICI DELLA STORIA: QUANDO L’AVVENTURA SI FA LEGGENDA. LA PECHINO-PARIGI E LE “CROCIERE” CITROËN, TRA AFRICA, ASIA E AMERICA DEL NORD

(E-Book e versione cartacea in bianco e nero - seconda edizione riveduta, corretta e aggiornata -, 113 pp., 81 note, 105 immagini)



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domenica 23 giugno 2024

154.UN “VITTORIANO MEDITERRANEO” ALLA SCOPERTA DELLE ANTICHE TESTIMONIANZE STORICHE DELLE SETTENTRIONALI ISOLE ORCADI. DA: REMINISCENZE DI UN VIAGGIO NELL’ARCIPELAGO SCOZZESE DELLE ORCADI

. Straordinaria foto di tre megaliti del Cerchio di Brodgar [2500-2000 a.C.]. Sullo sfondo vista del Loch di Harray (© Franco Pelliccioni)

 

Uno degli aspetti più straordinariamente insoliti di quella mia lontana visita invernale, alla scoperta della principale delle isole dell’arcipelago [Mainland], è consistito nell’essere sempre stato incredibilmente solo, in ognuno dei miei spostamenti.

In tutte le diverse aree archeologiche e naturalistiche da me visitate, nessuna esclusa, non ho visto l’ombra di un turista, o di un isolano, o… di animali. A parte, ovviamente, dei soliti uccelli marini, di qualche pecora e di alcune mucche a mantello rosso, tipiche della Scozia, appartenenti alla razza highlander.

 Il mio viaggio in quella terra così remota, alla scoperta di antiche testimonianze storiche, non può non farmi pensare che anch’io, grazie ad un’improbabile “macchina del tempo”, sia tornato indietro nel passato. Ad un’epoca, mi piace pensare, visti i luoghi, che potrebbe forse corrispondere a quella di fine Ottocento.

Tanto da farmi immedesimare in un viaggiatore dell’età vittoriana. O, comunque, in un forestiero, intento a effettuare un classico Grand Tour, sia pure organizzato “al contrario”. Cioè in un uomo del sud, un mediterraneo quale io sono, che voleva avvicinarsi, conoscere e apprezzare realtà e habitat nordici.

Sfidando “coraggiosamente” le difficoltà insite in un clima certamente inclemente. Oppure, pensandola ancora più in grande, indossando i panni di un esploratore che, in una terra ignota, andava alla scoperta di peculiarità naturali e di abbondanti ed evidenti tracce di un remotissimo, a volte perfino “misterioso”, passato.

Risalente, addirittura, a prima dell’edificazione delle Grandi Piramidi Egizie.

La cui comprensione, come la “giustificazione” della loro stessa esistenza e funzione, in passato erano state così controverse, da aver dato adito ad un’infinita sequela di contrastanti dibattiti pseudo-scientifici. Sui quali, talvolta, ha saputo “infierire” chi le avrebbe considerate perfino aliene dal nostro mondo.

 All’epoca del mio viaggio, ormai quasi quaranta anni fa, quell’arcipelago rappresentava ancora una terra pionieristica.

Dove i visitatori, anche in estate, non dovevano poi essere moltissimi. 

Figuriamoci poi in inverno, nel mese più duro qual è dicembre.

Quando la media della temperatura oscilla tra 2,3 e 6,8 gradi, con 24 ore di sole, ma… per l’intero mese!

 D’altronde nel 1982 si era ancora agli albori dei viaggi e del turismo di massa, i tour organizzati erano ancora invero pochi, i biglietti aerei relativamente cari, c’era ancora chi aveva la fobia per i voli aerei, le compagnie low cost erano al di là da venire, così come Internet e la possibilità di autogestirsi i viaggi.  Così ho potuto visitare lungamente, “in solitaria”, ogni singolo sito archeologico e addentrarmi in aree, dove oggi è totalmente impossibile penetrare. Poiché possono essere osservate solo a distanza…  

Inoltre, anche in base ai miei ricordi, confortati dallo Scrap Book dei miei viaggi, penso che solo in un’occasione: la visita della Tomba a camera di Maeshowe [2800 a.C.], io abbia avuto un regolare biglietto di ingresso.

DA: REMINISCENZE DI UN VIAGGIO NELL’ARCIPELAGO SCOZZESE DELLE ORCADI 

(E.Book, versione cartacea a colori e in bianco e nero, 178 pp, 188 note, 172 immagini, di cui 142 a colori. 72 sono dell'A.)

                           



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TUTTI I DATI (ECONOMICI, STATISTICI, DEMOGRAFICI, ETNOGRAFICI, ECC.) CONTENUTI NEI MIEI LIBRI SONO STATI ACCURATAMENTE VERIFICATI, INTEGRATI E AGGIORNATI AL MOMENTO DELLA LORO PUBBLICAZIONE.


venerdì 21 giugno 2024

153. ESPOSIZIONE DI PARIGI DEL 1855: PALAZZO DELL’INDUSTRIA, DIPINTI E SCULTURE DI ARTISTI FAMOSI, IL PRIMO ALBERGO PER VIAGGIATORI, GALLERIA DELLE MACCHINE (CAFFETTIERA, LAVATRICE, MACCHINA PER CUCIRE SINGER, PISTOLA COLT, LOCOMOBILE), FOUCALT (PENDOLO), SAX (SASSOFONO), PONTE DELL’ALMA, LA ROTONDA. Da: ESPOSIZIONI UNIVERSALI, COLONIALI E INTERNAZIONALI DI PARIGI 1855-1937. ALLA RICERCA DELLE STRAORDINARIE TESTIMONIANZE DELLE “MANIFESTAZIONI MASSIME” DELLl’IMPERO FRANCESE: INDUSTRIA, TECNOLOGIA, INVENZIONI, ARTE, ARCHITETTURA, PAESI, GENTI

 

Il ponte dell’Alma (inaugurato nel 1855) nel corso dell’Esposizione Universale del 1889. Sui piloni si vedono l’Artigliere e il Cacciatore, collocato dove attualmente c’è invece lo Zuavo

Nel maggio-ottobre del 1855 a Parigi ha luogo l’Esposizione Universale dei Prodotti dell’Agricoltura, dell’Industria e delle Belle Arti, la prima di una straordinaria serie.

L’ha fortemente voluta l’Imperatore Napoleone III, impressionato dalla visita, nel 1851, del Crystal Palace di Londra. Ma sarà ancora più grandiosa, perché bisognerà pur dimostrare al mondo ciò che è capace di fare la Francia. La sua è, perciò, una raison d’être puramente politico-patriottica.  Non sarà sufficiente innalzare sugli Champs-Elysées un solo, seppure imponente, Palazzo dell’Industria: tre navate in acciaio, 110 m di larghezza, 254 di lunghezza, 30 di altezza.

A lavori iniziati si scoprirà che è già troppo piccolo. Perciò diventerà soprattutto quello delle Arti. Vi saranno esposte cinquemila, tra pitture (Ingres ne ha 40 ed è accanto a Delacroix, Descamps e Courbet) e sculture.

 Lungo la Senna è così aggiunta una Galleria delle Macchine lunga 1.200 m. Ospiterà il meglio della tecnologia dell’epoca. Innumerevoli apparecchiature, che con gran fracasso funzioneranno tutto il giorno. Poiché, in piena rivoluzione industriale, si sono avuti già enormi progressi rispetto a quattro anni prima!

 Due edifici saranno, poi, collegati ad una preesistente rotonda del 1839, il Padiglione dell’Impero, dove si espongono mobili ed oggetti della casa imperiale, diamanti della corona compresi.

La curiosità dei visitatori dell’Exposition è attirata specialmente dalle invenzioni: la macchina per il caffè (2.000 tazze l’ora) e quella per lavare la biancheria; il revolver a sei colpi di Colt; la Locomobile, veicolo mosso con l’olio di petrolio; la macchina da cucire Singer.

C’è anche Foucault, che dimostra scientificamente con il pendolo la rotazione terrestre. Intanto il belga Sax pubblicizza il sassofono…

Saranno i proprietari della ferrovia per Saint-Germain-en-Laye, con l’architetto capo Armand, personaggio che ho già ricordato altrove, a pensare come ospitare al meglio le illustri personalità presenti.

Costruendo il primo albergo per viaggiatori della Francia. Il primo ad avere un ascensore, ma anche 700 camere, ampie scale, omnibus a disposizione dei clienti per le stazioni ferroviarie, guide, interpreti, ufficio informazioni e cambio, 1.250 impiegati, addirittura un ristorante con cucina internazionale.

È l’Hôtel du Louvre: ci si aspettava un fiasco, sarà invece un successo strepitoso!  

“Questa è stata anche la mia prima “scoperta”, poiché l’albergo si trova ancora davanti all’uscita del Louvre: è il Louvre des Antiquaires. La vecchia dicitura appare ancora sotto l’insegna”…

Così scrivevo in un articolo pubblicato sulla Terza Pagina del mio giornale. Oggi mi accorgo di aver commesso, allora, un “piccolo” errore. Poiché nell’imponente palazzo, che in precedenza aveva ospitato l’Hotel du Louvre, quando scattai quella foto c’era davvero il Centro Commerciale “Louvre des Antiquaires”. L’antico Hotel si trovava invece dietro di me, poiché era stato “trasferito” dalla parte opposta della Place du Palais-Royal, però con ingresso e insegna su Place André Malraux, già da oltre un secolo (1887)...

 Dopo il ponte dell’Alma, inaugurato anch’esso per l’Esposizione, ma ricostruito in ferro e ingrandito nel 1974, individuerò su un suo pilone lo Zuavo, l’unico rimasto di quattro soldati. Utilizzato dai parigini per misurare il livello dell’acqua fin dall’inondazione del 1910, quando solo la testa affiorava.

 Il poco che resta è sparso per la Francia e la periferia parigina. Il Palazzo dell’Industria sarà distrutto nel 1899 e rimpiazzato dal Grand e dal Petit Palais. Fino ad allora fungerà da Palazzo dei Congressi ed accoglierà un’Esposizione del Lavoro e il Salone dell’Elettricità (1881).

 Ecco i numeri del confronto con Londra: 4 ettari di superficie in più e 24.000 partecipanti (di 36 paesi), rispetto a 17.000. Ma i visitatori saranno 5 milioni, uno in meno rispetto ad Hyde Park [Crystal Palace], mentre ci sarà un deficit di 8.300.000 franchi.

Nonostante ciò, l’Esposizione ha avuto successo e la competizione, per eccellenza e grandeur, con i cugini d’oltre Manica è solamente all’inizio… Il costo d’ingresso è di 5 franchi, ma vengono distribuiti 10.000 ingressi gratuiti a chi ci ha lavorato.

Da: ESPOSIZIONI UNIVERSALI, coloniali e internazionali DI PARIGI 1855-1937. ALLA RICERCA DELLE STRAORDINARIE TESTIMONIANZE DELLE “MANIFESTAZIONI MASSIME” dell’IMPERO francese: Industria, Tecnologia, Invenzioni, Arte, Architettura, Paesi, Genti

(E-Book, versione cartacea a colori e in bianco e nero, 118 pp, 57 note, 146 immagini, di cui 91 a colori. 54 sono dell'A.)




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152. THE LINGUISTIC IDENTITIES OF BOTH FÆR ØER ISLANDS (NORTHERN ATLANTIC) AND FRIULAN CARNIA (ALPS, NORTH-EASTERN ITALY). FROM: ARCHIPELAGOS AND ISLANDS AT THE MIRROR. SEA-ONES (FAROE and MYKINES, DENMARK), LAND-ONES (CARNIA and SAURIS, ITALY)

 

Tórshavn's inner harbour is mostly intended for small fishing boats (© Franco Pelliccioni)

The numerically modest communities of the Fær Øer islands and of Carnia show strong cultural linguistic identities. Rooted themselves through the centuries, not only because of a more than secular isolation. Speaking about the Carnian territory, this has counted remote villages, therefore of difficult access (like Sauris, of which I will discuss in a while).

Carnia has represented to a great extent a zone of transit and connection between the sea and the interior, between the Latin world and the Germanic-one, between the plains and the mountain alpine world.

 From the linguistic point of view, both languages, Foroyskt and Carnian (dialect form of the Friulan language) didn't had, up to not long time ago, a standardized orthography (for the Faroese language we can go back to the end of the XIX century, with some previous attempts), 

Foroyskt as medium of teaching was acknowledged in schools only in 1938. Since 1948 is the archipelago National Language.

Both, the Faroe islanders and the Carnians are, besides, bilingual.  

Faroese language has considerably developed the terminology of typical aspects of its own habitat and economy: breeding of sheep, capture of birds, fishing, topography, weather, climate. 

Only for the movements of the oceanic waters (waves, surf, stream, etc.), the folklorist and philologist Jakob Jakobsen (1864-1918) singled out 44 different terms (for him it was not even an exhaustive number!).

Speaking about the Carnian dialect, "the Friulan language doesn't have a standard handwriting accepted by all and, unlike the Italian, it is not the language of the public education”. 

Here a difference with the Danish islands!

Carnia: Fornu di Sopra (© Franco Pelliccioni)

In some churches, it is used in the religious functions. 

At times the people prefer to speak Italian. So, they don't close themselves towards the outside, due to the presence of tourists and of not Friulan residents. 

And people tend, anyhow, to identify themselves with the local community and with the nation at large.  

Finally, I remind that already of the regional law 22 March 1996, n.1540, provided the creation of a scientific Committee to propose "univocal solutions to the residual divergences between the handwriting of the Friulan Philological Society and the "unitary normalized handwriting."

So, it was created the OLF: “Osservatorio regionale della lingua e della cultura friulane e di una unità amministrativa specifica per le comunità linguistiche” (Regional Observatory of Friulan Language and Culture).  

In 2004, OLF has been substituted from ARLeF, “Agenzia Regionale per la Lingua Friulana” (Regional Agency for the Friulan Language). In 2007 a Regional Law approved the "Norme per la tutela, valorizzazione e promozione della lingua friulana" (Standards for the protection, enhancement and promotion of Friulan language), which replaced and integrated the previous regional regulations.

 The informal inculturation, that is the intergenerational and face to face transmission of values and knowledges, in the family and domestic sphere of the two cultures, met its apotheosis in the evenings, close to the fireplace. 

When the extended family had the chance to meet and were handed down, from mouth to mouth, from father to child, "stories", facts, events, values.

 The oral tradition, which has played a very first rate rôle in the two communities, seems today to have lost importance with the advent of the planetary and homologating medium, above all television. 

As the General Manager of the SVF, the Faroese Television, underlined to me, he was trying to utilize the powerful formative function of the medium to replace, also if partially, the traditional oral transmission in the roykstova.

 Something analogous started in Friuli, thanks to the regional law quoted before. To develop the Friulan language and culture, the law provided the creation of an agreement with RAI (Italian Radio and Television) for the realization of Friulan language television programs. 

So, Rai Friuli-Venezia Giulia has: Un program di atualitât, costum, culture e societât [A program of news, costumes, culture, society] broadcasted from Monday to Friday in the morning and in the afternoon (30 minutes in all).

From: ARCHIPELAGOS AND ISLANDS AT THE MIRROR. SEA-ONES (FAROE and MYKINES, DENMARK), LAND-ONES (CARNIA AND SAURIS, ITALY)

E-Book, paper version in colour, I and II ed., and in black and white, 111 pages, 90 notes, 105 images (66 belong to the Photo Library of the A.)


Colour I Ed. : https://www.amazon.it/dp/1521472084


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giovedì 20 giugno 2024

151. TRA ECOINGEGNERIA E ASTROBIOLOGIA IL GRANDE PALAZZO MINOICO DI CNOSSO [QUELLO DI MINOSSE E DEL MINOTAURO]. Da: ALLA SCOPERTA DI MEGALI NÍSI, L’ISOLA DI CRETA. STORIA, ARCHEOLOGIA, NATURA, CULTURA

 


 L’ingresso di nord-est al Palazzo di Cnosso, parzialmente ricostruito dall’archeologo Evans (Archivio A.)

(…) Il Palazzo di Cnosso, oggi la più grande attrazione dell'isola, tra tutti i suoi vari livelli occupa una superficie complessiva di oltre 20.000 mq. Non solo era la raffinata residenza del signore, ma anche il fulcro della vita economico-amministrativa e religiosa della regione cretese, che gravitava intorno ad esso. In effetti il palazzo incorpora strutturalmente il tempio, tanto è vero che il termine woikos, secondo le scritture in lineare B delle famose tavolette, è utilizzato indifferentemente per casa e santuario. Qui officiava il re-sacerdote, rappresentante del Minotauro (dio-toro). Cioè il wánax, che la tradizione chiama Minosse, un titolo regale non strettamente legato ad una persona specifica.

Nel Palazzo di Cnosso lo spazio profano (orientale) e quello sacro (occidentale) si incontravano davanti ad un grandioso cortile centrale disposto su un’asse nord-sud, dove passava l’axis mundi di questa cultura del bronzo. Qui si ritrovano tutti gli elementi che caratterizzavano, per il Geertz, la “dottrina del Centro Esemplare”.

Poiché la corte esistente, il suo stile di vita, le cerimonie, i rituali e l’organizzazione sociale dovevano servire come “modelli culturali” e specchi per la comunità più ampia.

 Sul palazzo Evans scrisse: “gli elementi principali consistevano in torri, case e in una città fortificata. C’erano anche tracce abbondanti di intarsi di natura diversa, alberi e acqua, buoi e capre, guerrieri in marcia, lancieri ed arcieri, armi e utensili, forse la prua di una nave e curiose figure negroidi… Il particolare più stupefacente è costituito dalle facciate con i loro attici a due e tre piani e le loro finestre a quattro, o anche sei riquadri. Che in quell’epoca esistessero già finestre del genere, comprendenti anche delle specie di vetri, attesta ancora una volta la straordinaria anticipazione delle comodità della civiltà moderna, che caratterizza l’apogeo della storia minoica e che si manifesta con non minore evidenza negli impianti idraulici e sanitari”.

 La grande scalinata del Palazzo di Cnosso, foto d’epoca, 
Ashmolean Museum, Oxford

 In effetti una città-palazzo del genere poteva esistere solo grazie alla presenza di una grande quantità di mano d’opera e di una tecnologia per lo meno paragonabile a quella sumera, come conferma l’arredamento del palazzo. Anche se l’esistenza delle finestre menzionate dall’archeologo rappresenta una grossa innovazione rispetto alle buie abitazioni di Sumer. Quindi, anche se il Palazzo non ha seguito specifici canoni architettonici, come potrebbe immaginarli un moderno professionista, ha seguito invece linee-guida “altre”, e più profonde. Dettate dalla natura e dall’astrobiologia (…) i minoici di Cnosso vanno considerati come i precursori ante-litteram di un’audace ecoarchitettura ed ecoingegneristica. La costruzione del Palazzo ha seguito alcune idee-forza strettamente connesse alla natura, alla luce, al clima, oltre che al benessere dei singoli e al loro quotidiano (…) Cnosso, perciò, non è solo un’apparente e slegata “accozzaglia” di abitazioni e sale e non ha ricercato un’architettura indotta da modelli di magnificente grandiosità. Qui, come a Festo, la casa si è adattata al terreno. Sfruttando fino in fondo la conformazione di suolo e sottosuolo, ricavando appartamenti ai diversi livelli, tra loro collegati da scale.

(…) A Cnosso sono state aperte terrazze e ritagliati giardini pensili. Lucernari, “pozzi di luce”, muri provvisti di aperture superiori, porte e finestre (thurís) ottimizzano la luce, che penetra profondamente in ogni singolo ambiente, rispettando sempre e comunque il giusto rapporto luce-ombra... Ai costruttori l’habitat circostante ha suggerito il tipo di colonna portante in legno da utilizzare (…) Saranno tutte distrutte dagli incendi, che più volte bruciarono il palazzo.

(…) Natura e astrobiologia hanno insieme dettato l’orientamento dell’immenso edificio: ad oriente, verso il sole, troviamo gli ambienti privati del re e della regina; ad occidente, i magazzini ombreggiati e i luoghi destinati al culto. In tutti e quattro i punti cardinali ci sono poi gli ingressi monumentali, con logge e propilei colonnati. Cnosso aveva una buona conoscenza dell’idraulica, allora la più avanzata in Europa. Non solo perché le acque piovane raccolte sulle terrazze erano poi convogliate, assieme a quelle “nere”, in condotte sotterranee alte quanto un uomo, scaricando infine il tutto nel vicino fiume. Esisteva anche un buon sistema di approvvigionamento idrico (...) Nell’appartamento della regina la camera da bagno aveva un seggio in legno e un congegno di scarico a basculla, c’erano numerose vasche da bagno e, nell’area nord, vasche a gradoni per le abluzioni rituali.

 Al cuore del Palazzo si arriva dal cortile occidentale. Passando vicino ai magazzini (…) con le loro giare (píthoi), un tempo sigillate per non far deteriorare le derrate: grano, orzo, legumi, olive, vino, olio, usato anche per l’illuminazione. Erano ombreggiati e collocati sotto il piano stradale. Nei ripostigli lungo le pareti si conservavano, invece, i prodotti non commestibili.

Passo attraverso i propilei dell’ingresso meridionale, dove sono state collocate grandi corna taurine, anticamente poste sopra una finestra. Ricordo come i sacri simboli delle corna e dell’ascia bipenne proteggevano le abitazioni. Stavano ovviamente anche sugli altari, nonché ai piedi di alberi, pilastri e sopra i tetti. Il corridoio della Processione (…) mi porta quindi fino al vasto spiazzo della corte centrale.

La parte occidentale del Palazzo era quella ufficiale. Qui trovo le Sale di rappresentanza e quella del trono - thrónos - (in alabastro), articolata su tre piani. È adornata con un affresco con grifoni e gigli sullo sfondo. Era destinata al culto e ha una panca in gesso lungo le pareti.

 Vi si trova anche un bacino per le abluzioni e un piccolo tempio sul retro, con doppie corna, ascia bipenne e statuette. Accanto, ecco la sala del Tesoro del Santuario delle tre colonne. Sui pilastri vedo incisa la doppia ascia. Da qui provengono le celebri “dee dei serpenti” e numerosi oggetti cultuali, tutti conservati in enormi cofani di pietra.

L’ala orientale è anch’essa a più piani, tra loro raccordati da una maestosa scalinata ricostruita dall’Evans. Scende su tre livelli ed è punteggiata da colonne e pilastri e circondata da un lucernario. Dal cortile mi porta al piano terra, nelle residenze private dei sovrani, dove ci sono i mégaron (sale di rappresentanza) del re e della regina, con la sala dei colonnati, il cui ingresso è affrescato con i delfini, nonché le loro stanze private.

Ritornato in superficie, un altro corridoio mi conduce infine dal cortile centrale all’ingresso nord del Palazzo. Qui c’era la Dogana e la loggia (…) della Torre di Guardia. Al di là si trova il teatro più antico che si conosca (dopo quello di Festo). Con le sue gradinate all’aperto, divise in due parti, che vanno ad incontrarsi all’altezza del palco reale, e rivolte verso lo spiazzo destinato agli spettacoli (danze e tauromachie).

Il quartiere meridionale ospitava invece i servitori e gli artigiani (thhronoworgói), vasai e orafi compresi, non sappiamo se schiavi (dóeloi) o liberi.

E-Book, versione cartacea a colori - I e II ediz. - e in bianco e nero, 153 pp., 179 foto, di cui 148 a colori (128 sono dell’A.)

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