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domenica 7 luglio 2024

166. ALLA SCOPERTA DELLE TESTIMONIANZE STORICO-ARCHEOLOGICHE DEL NORD-OVEST DI MAINLAND, LA PRINCIPALE ISOLA DELLE ORCADI: BROUGH DI BIRSAY DA: REMINISCENZE DI UN VIAGGIO NELL’ARCIPELAGO SCOZZESE DELLE ORCADI

 

 Straordinaria veduta sulla baia di Birsay, durante la bassa marea. Sullo sfondo l’isolotto di Brough di Birsay: faro e resti dell’insediamento vichingo. È il momento di raggiungere a piedi l’isolotto (© Franco Pelliccioni

Dopo aver pazientemente aspettato il momento giusto per proseguire a piedi la mia visita del nord-ovest di Mainland, in attesa che la bassa marea raggiunga il suo livello massimo, lentamente inizio ad attraversare il Sound di Birsay. Poiché l’isolotto Brough di Birsay [Brough qui sta per broch, mentre Birsay viene dal norreno Byrgisey, "isola fortezza"] è situato a poca distanza dalla costa [240 m] e posso raggiungerlo, non come fece Mosè, ma grazie ad un camminamento roccioso rialzato, ovviamente molto scivoloso, in gran parte naturale.

Il che è però possibile solo per ca. tre ore al giorno, cioè durante la bassa marea.

Per cui bisogna stare molto attenti, sia ai tempi di andata-ritorno, che di visita. Per non dover rimanere poi bloccati a Birsay, non so neanche per quante ore. Anche perché il buio totale, in questa stagione [dicembre] e a queste latitudini, arriva molto presto.

Sembra che l’isolotto un tempo fosse strettamente connesso alla terraferma di Mainland e che l’attuale situazione sia dovuta alla plurisecolare erosione marina: vento, onde, maree, che sono riuscite a disintegrare il terreno tra il Point o' Buckquoy [Dove oggi c’è un parcheggio per le auto] e l’isolotto.

Che, a quanto pare, già esisteva, come lo vedo oggi, nel VII secolo, al tempo dei Pitti. 

Sembra impossibile che, proprio in questo minuscolo lembo di terra, grande poco più di una ventina di ettari, per secoli si sia concentrato tutto il potere, sia politico, che religioso delle Orcadi. Fino al XII secolo. E in questo sperduto angolo risiedette Earl Thorfinn il Potente (morì nel 1064), uomo forte, saggio e magnanimo, durante il cui regno la potenza vichinga raggiunse l'apice, estendendosi fino alla Scozia e alle Ebridi.

Al di là di un muro di cinta, entro in un antico cimitero, vedo i resti di un monastero irlandese (V secolo), ma anche la chiesa romanica di San Pietro (XII°).

Certamente una chiesa importante, sede del primo vescovado delle Orcadi, che più tardi dovrà lasciare il posto alla Cattedrale di St Magnus, a Kirkwall.

Qui osservo anche la replica [L’originale si trova nel Museo della Scozia ad Edimburgo], non in scala, della famosa "pietra di Birsay", risalente all'VIII secolo.

L’hanno realizzata i Pitti, che nel VII secolo avevano preceduto i Vichinghi,

[Mandando avanti l’orologio della storia, ecco arrivare un popolo dell'età del ferro, quello dei Pitti - Picti, o popoli dipinti -. Come i romani chiamarono, dal 297 d.C., gli abitanti a settentrione del vallo Antonino]

e vi scolpirono una mezzaluna e un bastone a V sotto la cosiddetta mitica “Bestia Pitta”.

Oltre ad un’aquila e a tre guerrieri in processione, con spada, lancia e scudi.

L’originale fu ritrovato in frammenti nel 1935, durante gli scavi effettuati nel cimitero, anche se si trovava al di fuori delle sue mura

 Ma qui c’è anche ciò che rimane dell’antico insediamento vichingo. Composto da tredici case lunghe del IX-XII secolo, mentre a nord della chiesa le rovine che osservo assomigliano molto a quelle del Palazzo del Vescovo di Gardar (oggi Igaliko), nella Groenlandia meridionale, che ho potuto visitare.

Oltre a uno scivolo per barche.

 Oggi sul Web scopro che, oltre a pagare un biglietto di ingresso, il che sembrerebbe addirittura ovvio, allora non avrei potuto visitare il sito, perché chiuso tra il primo ottobre e metà giugno…

DA: REMINISCENZE DI UN VIAGGIO NELL’ARCIPELAGO SCOZZESE DELLE ORCADI 

(E.Book, versione cartacea a colori e in bianco e nero, 178 pp, 188 note, 172 immagini, di cui 142 a colori. 72 sono dell'A.)

                           



...

TUTTI I DATI (ECONOMICI, STATISTICI, DEMOGRAFICI, ETNOGRAFICI, ECC.) CONTENUTI NEI MIEI LIBRI SONO STATI ACCURATAMENTE VERIFICATI, INTEGRATI E AGGIORNATI AL MOMENTO DELLA LORO PUBBLICAZIONE.

sabato 6 luglio 2024

165. OLAVSØKA, LA FESTA DI ST. OLAV, A TÓRSHAVN, CAPITALE DELLE FÆR ØER: LA SFILATA POPOLARE, IL CORTEO DELLE AUTORITÀ POLITICHE E RELIGIOSE, QUELLO STORICO. DA: VIAGGIO NELLE ATLANTICHE ISOLE FÆR ØER IL PAESE DAI TETTI DI PRATO, CHE ONDEGGIANO AL VENTO

 

I cavalieri si attestano davanti al Parlamento in attesa del discorso rituale (© Franco Pelliccioni


Viste dal largo le Fær Øer sembrano disabitate: una muraglia di basalto si leva a picco dal mare in perenne burrasca (...) Dove la spuma ribolle e crea pericolosi vortici. Chi non è pratico preferisce non avventurarvisi (...) Alle Fær Øer non approdano mai turisti, solo naufraghi della pesca o navi di piccola stazza (...) Gruppi di case, interamente coperte in torba e pietra (...) Si stagliano nel paesaggio di una desolazione unica: non c'è quasi albero alle Fær Øer...
(Cova S., "Fær  Øer. Usi e Costumi", in Il Milione, Enciclopedia di geografia...., Novara, 1965)

I CAVALIERI, I CORTEI, LA REGATA

Particolarmente preziosa è stata l'occasione di poter partecipare alla Festa Nazionale faroese, l'Olavsøka - il giorno di St. Olav -, che ogni anno cade nei giorni 28 e 29 luglio. Durante i quali la tradizione culturale faroese ha modo di estrinsecarsi nelle sue articolate sfaccettature.

Mentre la politica si rafforza, con la solenne apertura annuale dei lavori del Parlamento, nel secondo giorno dei festeggiamenti, come da mille anni addietro ha sempre fatto.  Poiché re Olav Haraldsson il Santo morì nella battaglia di Stiklastad il 29 luglio del 1030.

 Il 28 la festa viene aperta da un corteo popolare, preceduto da cavalieri con la bandiera faroese, che si arresta davanti al Løgtingið, dove una banda suona l’inno nazionale.

Nel primo pomeriggio ha invece inizio una coinvolgente regata tra le tradizionali barche faroesi, con la partecipazione di numerosissimi ed entusiasti spettatori.

Perciò St. Olav non è solo una celebrazione religiosa, popolare, politica. O una festività nordica di mezza estate.

È festa, questa, che, sia pure sottilmente, conserva i contorni di quella "Grande Festa", così magistralmente descritta tanti anni fa da Vittorio Lanternari nell'omonimo libro.

È una festa di "Capodanno", nei suoi più appariscenti risvolti anche un po' "pagana" e pre-cristiana.

Durante la quale il faroese ha una sana voglia di divertirsi e di apprezzare ciò che di bello e di duraturo c’è nella vita.

 Mano a mano che il tempo trascorre e si continua a passeggiare e ad incontrarsi, e sempre più si prosegue nel bere, ecco che si intonano i primi canti.

TUTTO AD UN TRATTO, NELLA NOTTE, UOMINI E DONNE PER LE STRADE DI TÓRSHAVN DANNO INIZIO ALLA DANZA A CATENA MEDIEVALE

Più tardi, molto più avanti, nel cuore di una notte, che "oscura" non è mai, perché tutt'intorno a te c'è l’essenza stessa della vita, i primi gruppi di uomini e di donne, mescolandosi tra loro, prendendosi per mano, lentamente, gradatamente, sinuosamente, cominciano a muoversi ritmicamente, con le stesse movenze usate tanti secoli prima dai loro antenati.

…………….

Danza a catena in un francobollo faroese del 1981
(di Czesław Słania) 



LA DANZA A CATENA

Circa mezzo secolo fa si poteva leggere come le isole "hanno conservato antichissime tradizioni di danza. Qui per le feste, ad esempio, dopo le grandi cacce alla balena, c'è solo una danza a catena, senza accompagnamento strumentale, in un movimento caratteristico ondeggiante a sei passi. Le ballate [kvæði] che si cantano in queste feste non sono sempre, è vero, di origine antica, ma trattano ancora di Sigurd, Brunilde, Carlomagno ecc."(…) “La prima menzione scritta della danza faroese risale al 1616, quando l'islandese Jón Ólafsson sbarcò nelle Isole Faroe al servizio di Cristiano IV (…) Ma la danza faroese è ancora più antica. È chiaramente correlata alle forme di danza medievali europee” (…) Già presente in un lontano passato in diverse regioni scandinave ed europee, "la danza faroese è una semplice danza a catena nella quale i ballerini si tengono per mano e formano una lunga catena o anello a maglie annodate. La danza inizia con il leader (skiparin) e pochi altri che vanno avanti sul pavimento e iniziano a ballare. Poi gradualmente più persone trovano un posto nella catena e quando sono abbastanza, la catena può essere chiusa per formare un anello”.

……………………………………

E dire che la notte è fredda, piovosa, nebbiosa, ma non può che essere ugualmente vissuta fino in fondo! Non a caso, in passato, alcune sette religiose condannarono duramente queste danze, definendole "diaboliche".

Ecco perché le chiese, durante St. Olav, si danno da fare in piazza e sulle strade. Con sermoni molto ascoltati, anche con il tempo pessimo.

Mentre più volte al giorno, nella piazza principale (Vaglið), davanti al Parlamento e al Municipio, si ripetono i canti e gli inni dell'Esercito della Salvezza.

Del resto “giocano in casa”… Poiché la loro “base” è poco distante dalla “mia” Casa del Marinaio.

UNO STUPENDO COSTUME NAZIONALE

Molti uomini, donne, bambini indossano il costume nazionale, che è stato riscoperto in questi ultimi tre, quattro decenni, e tende ad avere più di un’assonanza con i vestiti di epoca vichinga.

Anche se non tutti possono permettersi di avere un vestito assai costoso.

 Poiché, a parte la splendida fattura, sono d'argento i pesanti, numerosi bottoni, che parallelamente ornano il cardigan (knappatroyggja) dell'uomo, che in testa ha la classica e semplicissima bustina dalle strisce rosse e blu (húgva).

Mentre le donne indossano un lungo vestito (stakkur), con numerose decorazioni e grande fermaglio, altrettanto d'argento (stakkanál), e si ascolta musica

 Forse, oltre la metà degli spettatori delle regate e delle diverse manifestazioni, oltre che dei partecipanti allo struscio "non stop", tra la strada pedonale, il cuore della città, e la zona occidentale del porto, indossa con naturalezza gli splendidi abiti tradizionali.

Ecco che la festa di St. Olav ha la capacità di rinnovare e rinsaldare vecchi legami e di costruirne nuovi.

Ecco che, anno dopo anno, si ribadisce la propria identità. Ricostruendola nuovamente. Rafforzandola in questi incontri, che dureranno per giorni.

Durante i quali, apparentemente, tutti sembrano felici.

Orgogliosi di essere faroesi. Fieri di mangiare e di bere insieme. Compiaciuti di questo loro aspro clima, come della loro rude terra.

Contenti fino in fondo di esserci nati e cresciuti.

Da: VIAGGIO NELLE ATLANTICHE ISOLE FÆR ØER. IL PAESE DAI TETTI DI PRATO, CHE ONDEGGIANO AL VENTO 

E-Book, versione cartacea a colori e in bianco e nero, 182 pp, 271 note, 180 immagini (139 sono mie) 


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venerdì 5 luglio 2024

164. THE HUMAN AND GEOGRAPHICAL SCIENCES IN THE ARCTIC, PRIORITIES AND PERSPECTIVES: AN INTRODUCTORY OUTLINE, PART II: The Contribution that Italy could bring to Arctic Knowledge; The Italians and the Arctic. From: QUI BASE ARTICA DIRIGIBILE ITALIA, SVALBARD. DALLA TERRA DEGLI ORSI POLARI UNA RASSEGNA E UN INVENTARIO CULTURALE DEI POPOLI DEL GRANDE NORD

 

Giacomo Bove (1852-1887) ploughed the "mythical" North-East Passage aboard the Vega, with Nordenskjöld (1878-1880)

[Paper read on the 15 May 1997 at the International Workshop held at Ny Ålesund (Spitsbergen Island, Svalbard), during the Official Opening of the Italian Arctic Base of the CNR "Dirigibile Italia"]

The Contribution that Italy could bring to Arctic Knowledge

Italy has been called to carry out a first-rate rôle in the Arctic. 

Till now mostly non-existent, excluded some rare, often out-dated, exception. Sometimes, however, of very high importance. 

A rôle that should be "invented", therefore. But this only, not the human resources, that we know are numerous. 

Italy doesn't possess neither background, nor the know how of the Nordic states. Among which, furthermore, the great powers of the world or, anyhow, the more developed-ones are included. Not even of those countries, like Great Britain, that owe to their old overseas colonies continuity and "thickness" in their Arctic studies. 

What after a first consideration it could look like as a sort of our serious handicap, in comparison with other IASC member countries, in reality clears the field from ancient fogs, swamps, obstacles, routes, schools or, however, preset itineraries. 

Consequently, we should not try to servilely imitate works already made by others, or to be attracted by thematics already examined thoroughly by others. 

Our "Polar stars" should be formed by those people who, however, preceded us in the Arctic regions. 

I remind Cristoforo Negri, the founder of the Italian Geographical Society in the half of the XIX century, who has been an irresistible supporter of Polar expeditions. 

All the more the Society financed three foreign expeditions, as well. But those were other times, evidently... 

The Italians and the Arctic

The personages to whom we can refer to, somehow, if we were going to make a short history of Italian explorations and researches in the Arctic, aren't so numerous. 

As regards the "classical" explorations, in which it moved a never drowsy anxiety of knowledge, always dense of expectations, I want to remember the activities of some Navy Officers: Parent, who attended the Nordenskjöld expedition (1872), or the famous Bove, who ploughed the "mythical" North-East Passage aboard the Vega, always of Nordenskjöld (1878-1880), or De Rensis on the Djimphna (1884), blocked by ices in the Kara Sea. 

Besides the maritime expeditions of the last quarter of the century to the North Pole, that would be carried on, at the very beginning of the II Millennium, with the Duca degli Abruzzi expedition (1900), and to the "Passage," the Italians had known how to conquer a certain scientific leadership towards another Arctic region: Lapland. Francesco Negro in a voyage carried out between 1663-1666 reached North Cape. 

But relations with Lapland of Italian travellers and researchers, also ethno anthropologists, went on in the eight hundred century, thanks to botanist Filippo Parlatore, with his 1851's journey, and to Sommier and Mantegazza, who went to Scandinavia and Lapland in 1879. 

Sommier wanted to know "quel piccolo popolo che abita nell'estremo nord di Europa, in regioni desolate, ove per il rigore del clima e la sterilità del suolo, non potrebbe vivere nessun altro popolo europeo". 

He was among the first to make observations on the Kvens, the Finns emigrated in northern Norway. 

Stefano Sommier: Un' estate in Siberia fra Ostiacchi, Samoiedi, Siriéni, Tatári, Kirghĭsi e Baskĭri. Ermanno Loescher, 1885

In Finnic Lapland in 1883 he was preceded by Lamberto Loria. Between a trip and the other, Sommier pushed up himself as far as Western Siberia, exploring the course of the Ob river, taking an interest in Nentsy (Samoyeds) and Khanty

At the end of the XIX century Count Zileri went with Enrico, Prince of Borbone and Parma, in a first exploration to Svalbard and New Zemlja (1891). 

How don't remind, naturally, the scientific results originated from the two Nobile flights

Or the one, that became a forced reconnaissance of the great North-East Island of the Svalbard, searching for the red tent survivors?

 Made by Engenieer Albertini (1928) who, still in 1929, explored Spitsbergen, Franz Josef Land and New Zemlja. And by the alpine Captain Sora, the discoverer of the Isola degli Alpini

And what about the fine Italian alpine-scientific exploits: from Svalbard to Greenland, to Baffin. 

Up to the recent Messner crossing of the Greenlandic ilandsis already experienced, at the end of the XIX century, on a shorter route, by the great Nansen

Finally let me have the pleasure to mention a colleague, the late Zavatti. In the '60 he carried out five missions among the Canadian and Greenlandic Inuit and Lapps. 

He founded a Polar Museum and the magazine Il Polo

Lastly, I should remind my own experiences of Arctic researches. In 1983 I carried out an anthropological survey in a sample of six Inuit communities in the Canadian Arctic

In 1994 I worked, instead, to a project concerning both the national components (Norwegian and Russian) that are present in the Svalbard: in the fields of ethnicity, development and man-environment relationship. 

My intention for the future is to go on with the research. 

Besides to carry on with the job, started long ago within the frame of my "Program on Northern Atlantic Maritime Communities," with a research in a "sample" community of Iceland.

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martedì 2 luglio 2024

163. THE HUMAN AND GEOGRAPHICAL SCIENCES IN THE ARCTIC, PRIORITIES AND PERSPECTIVES: AN INTRODUCTORY OUTLINE, PART I: Nobile and the North Pole; The Base "Dirigibile Italia". From: QUI BASE ARTICA DIRIGIBILE ITALIA, SVALBARD. DALLA TERRA DEGLI ORSI POLARI UNA RASSEGNA E UN INVENTARIO CULTURALE DEI POPOLI DEL GRANDE NORD

 L’arrivo del dirigibile Norge il 7 maggio 1926 nella Baia del Re (Ny-Ålesund)
 
[Paper read on the 15 May 1997 at the International Workshop held at Ny Ålesund (Spitsbergen Island, Svalbard), during the Official Opening of the Italian Arctic Base of the CNR "Dirigibile Italia", Part I]

Nobile and the North Pole

In the last months [of the year 1996] more than once I referred, after the discovery of the "false" flight of Byrd, to what gradually revealed to be the Italian record, not only a symbolic-one (but of enterprise and science), in the "conquest" of the North Pole. 

Thanks to the 1926 Norge N-1 airship expedition of Nobile, Amundsen and Ellsworth. 

As regards myself, I only remember that in the by now far 1983, within the First North Pole International Congress it was approved an important resolution, that so recited: "les données dont nous disposons aujourd'hui ne permettent pas en vérité, de parvenir à des conclusions scientifiques certaines à propos de la controverse sur Peary et Cook. Le premier conquérant indiscutable du Pole par voie de surface, en l'état de question, en moto-neige, est l'Américain Ralph Plaisted, le 20 avril 1968. Le Britannique Wally Herbert conquiert le Pole en traineau à chiens, le 6 avril 1969".

 Therefore, the moment is arrived for the historians of all the world to take hand to encyclopaedias, handbooks and schoolbooks to review and, then, rectify what, for so long, has been kept unchanged.

 Without holding in due consideration what showed itself to be the historical truth. 

This extraordinary circumstance, also if for many experts didn’t arrive at all unexpected, couldn't not offer to our country new responsibilities, greater engagements and further duties. 

Not only from a moral point of view. 

But, above all, in the field of scientific research, and of the deepening of Arctic world knowledge. From a physical and naturalistic point of view, as from a human and cultural one. In collecting "in the field" the essential data and background materials. 

But also, in carrying out observations, comparisons, works and detailed studies on Arctic aspects and problematical areas with well delimited scientific and significant borders, both theoretical and applied. A region of the world generally, if not at all, ignored by Italian researchers of yesterday and today. 

And not only by them!

 The Italian science is called, now, to offer a contribution of quality, starting from next future. This is another challenge, that must not be only limited to the heuristic field, but should especially aim towards more practical and applied goal. 

Seen the importance, at all prominent, that the polar region holds in the ecological equilibrium of the planet, and for its diversified micro and macro-territorial realities, that invest the same future of the numerous peoples that from time immemorial live there.

The Base "Dirigibile Italia"

La Base di ricerca italiana del CNR Dirigibile Italia
(© Franco Pelliccioni) 

 The name, its specific location, the contemporaneousness of today celebrations: all this attest clearly the indissoluble connection binding, not only for a formal and merely logistic aspect, the two Nobile flights to the National Research Council (CNR) Base.
 
And the same central position of this well-equipped station, from a geographical point of view, as from a scientific-one, in future it will become, according me, one of its best characteristics. 

As we know, the island of Spitsbergen, not too far away from the Pole, is placed in an archipelago that for centuries for several explorers and navigators was the starting point along the "European route" to the North Pole. As from here they launched their final attack.
 
From a more strictly scientific point of view, we are now included in the head group together, not only with the Nordic Countries, but also with those, like English and French, that from long time are in the van of the so-called Polar studies, with a long continuous tradition in Arctic exploration. 

The mission, that could become permanent, could act, indeed, as a precious "fly-wheel" at not much distance from the Polar ice cap. 

An eventual future availability of air or naval (on the pattern of those owned, or upon which the Norskpolarinstitutt crafts may always rely on), from Longyearbyen or Ny Ålesund, would offer to our research further and rich prospects. 

Allowing us to start from these places to carry out prominent scientific "attacks", towards East and South East (Franz Jozef Land, Arctic Russia, Siberia), as well as towards west (Greenland, Arctic Canada and Alaska). 

As we are well aware how solid pack-ices are, so to be able to make land four-engined aircrafts! 

Using the same Trans-Polar Route so brilliantly inaugurated from the Norge flight (1926), that since many years enabled commercial airlines to get advantage just from the Polar centrality.
 
Otherwise "areal scientific reconnaissances", or low cost regional surveys would become possible. 

It could also be thinking to the attendance of Italian researchers to Arctic cruises, like scholars from other countries do. 

First of all It could quietly been said that from this Base a strong impulse to a better knowledge of the archipelago should be given. Especially from an etno-anthropological point of view (and not only).

 In this field, researches were totally non-existent, at least up to the one carried out by me in 1994.

 In a second time the international airports of Oslo and Copenhagen (in addition to Tromsø) could be used as relay, to carry out missions beyond the Svalbard, in other Arctic regions, Euro-Asiatic as well as American. 

When the economic and financial situation of our country will return to "normalization," we will be able, perhaps, to range more autonomously in the Arctic. 

My deeper and sincere wish is that from here we will able to make a scientific good job. 

Like the excellent-one our colleagues in Antarctic and on the Everest-K2 have already done and they are still going on in doing it. 

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lunedì 1 luglio 2024

162. UNA DOVEROSA PREMESSA; LA CIVILTA' EGIZIA; DAVANTI ALLE GRANDI PIRAMIDI DI GIZA; DAL DIARIO DI VIAGGIO: CAIRO. DA: VIAGGI IN EGITTO 1980-2009. CROCIERA AEREA E FLUVIALE SUL NILO; AI CONFINI CON IL SUDAN, ALLA RICERCA DI BERENICE TROGLODITICA E DELLA “CAROVANIERA DEGLI 11 GIORNI”; NEL SINAI

 

 Piramide di Cheope (alta 137 m), Giza: IV Dinastia,
 Antico Regno, ca. 2620 a.C. - ca. 2500 a.C., 1980 
(© Franco Pelliccioni

UNA DOVEROSA PREMESSA

  Nel corso dei miei vagabondaggi scientifici che, in quasi mezzo secolo, mi hanno avvicinato a numerose realtà culturali "altre", tra Europa, Africa e America, più volte ho avuto modo di utilizzare il percorso per effettuare, en route, soste intermedie più o meno veloci. Che, così, mi hanno consentito di ampliare la conoscenza di aree finitime a quelle dove ero diretto. 

Approfondendo ulteriormente caratteristiche geo-storiche ed etno-antropologiche.

 Raccogliendo prezioso materiale aggiuntivo, non solo fotografico o sonoro, "a latere" e "di sfondo", che, in un secondo tempo, si sarebbe dimostrato interessante per la mia attività. Una buona "abitudine", questa, condivisa del resto anche da alcuni Maestri della mia disciplina. 

In previsione di una seconda sessione di indagine nel profondo sud del Sudan, da realizzare nel 1980-81, quale occasione migliore per progettare una sosta in Egitto? 

Visitando così, quasi a campione: luoghi, zone archeologiche, monumenti et alia, da un capo all'altro del paese. 

Dall'imboccatura del delta (il Cairo) ai lontani confini meridionali con il Sudan (templi di Abu Simbel). 

Un viaggio nel viaggio capace di offrire una visione d'insieme, a "volo d'aquila", di quel paese e di quelle popolazioni. 

Regione che un tempo era stata definita: "vaga e misteriosa, popolata da selvaggi, demoni, serpenti magici, pigmei e bestie mostruose"

LA CIVILTÀ EGIZIA

 La mia prima "visita" in Egitto [1980], che ha quindi seguito più direzioni, non è stata del tutto peregrina. Consentendomi un approccio meno teorico a quel paese, fin dall'antichità.

 È mia intenzione cercare di descrivere quelle che, allora, furono le mie sensazioni davanti a questa straordinaria culla della civiltà umana. Non confrontabile con altre situazioni presenti nel mondo intero, secondo me.

Che sono nato e cresciuto a Roma. Ho ammirato la Grecia e le testimonianze archeologiche della civiltà Azteca, Maya, Minoica.

 Quando posi i piedi per la prima volta su questa parte del "crescente fertile", mi portavo inevitabilmente appresso un bagaglio culturale, fatto di nozioni, idee, storie, cognizioni, clichés e… pregiudizi? 

Il tutto ampiamente sedimentato e stratificato, fin dall'epoca dei miei primissimi passi sulla via del sapere, nella mia mente e nel cuore.

Ecco perciò le Piramidi, la Sfinge e la Valle dei Re, 

Tombe e Templi faraonici sparsi a profusione lungo il Nilo, Ramses II il Grande e la scoperta della tomba di Tutankhamon, il grandioso progetto internazionale per salvare Abu Simbel, la sala delle gigantesche colonne di Karnak: questi sono solo alcuni dei "punti di forza" mentali sui quali ho cercato di incardinare il mio viaggio tra Basso, Alto e Medio Egitto.

Ce ne sarebbero stati ancora diversi, appartenenti sia all'era faraonica, che a periodi successivi.

Con il pensiero si poteva andare alle storie di Erodoto (450 a.C.), ad esempio, o alle descrizioni di Strabone (30 a.C.). All'età delle esplorazioni, non solo geografiche. A quella degli scavatori di tesori, compreso il padovano Belzoni.

Ma ancora: all'inusitata impresa napoleonica in terra d'Africa, che comportò una massiccia partecipazione dei savants dell'epoca; alla scoperta della "traslitteratrice" stele di Rosetta, vera chiave di lettura con la quale lo Champollion riuscì, infine, a scardinare segreti e misteri della scrittura geroglifica (ideografica e fonetica) egizia; alla fondazione di una nuova scienza con le carte in regola, l'egittologia; all'incredibile, e altrettanto miserabile, epopea dei ladri di tombe che, a partire dall'epoca faraonica, arriverà fin quasi ai giorni nostri. 

E, infine, ai misteri.

Come quello relativo alla scomparsa nel nulla dei 50.000 soldati della grande spedizione del re Persiano Cambise verso l'oasi di Siwa.

 Sarei tentato di allungare a dismisura questa lista, ma è mia intenzione quella di approfondire, in seguito, alcuni tra i temi appena accennati. 

Qui voglio solo cercare di interpretare, per il lettore, lo stato d'animo di chi per la prima volta si è trovato di fronte alla Grandiosità per antonomasia!

DAVANTI ALLE GRANDI PIRAMIDI DI GIZA

. Fotografati a Giza, 1980 (© Franco Pelliccioni) 

 La prima impressione che si prova, giunti al cospetto delle grandi Piramidi di Giza, è la sua totale assenza! 

Ciò che capita al neofita è un impeto, una cascata di confusione mentale, di annichilimento vero e proprio dell'intelletto. 

Ci si sente naturalmente frastornati, interdetti, muti.

 Senz'altro una sindrome di Stendhal all'ennesima potenza!

 È la sensazione palpabile, concreta, di non riuscire a "realizzare" appieno tutto quanto ci troviamo improvvisamente davanti allo sguardo, così stracolmo di grandiosità: le tre piramidi, la sfinge, gli innumerevoli resti archeologici minori. Tutto contemporaneamente sotto il nostro campo visivo.

E, per un certo periodo di tempo, è difficile uscirne fuori.

Ogni particolare contribuisce a magnificare quanto si vede. 

Compresa la stessa posizione rialzata di quelle che, un tempo, rappresentavano una delle sette meraviglie del mondo.

Poiché, non bastando la loro concentrata, naturale maestosità, trovandosi su un pianoro naturale, esse ci sovrastano addirittura dall'alto, facendoci ancora più piccoli.

L'unica cosa che si riesce ad avvertire, cercando di dare "senso" e "direzione" ad un'inusuale situazione, a ciò che in quei lunghissimi momenti ho provato, io che ancora continuo a meravigliarmi e a stupirmi, in maniera persino fanciullesca, di fronte al "nuovo" e al "diverso" proveniente da ogni località, che ho avvicinato nel corso dei lunghi viaggi di ricerca nel mondo, è che di fronte alle Piramidi non c'è proprio nulla che si possa dire o aggiungere di intelligente.

Quindi, o una silenziosa, rispettosissima ammirazione, o il ricorso, ad ogni piè sospinto, a iperboliche aggettivazioni degne di un Marco Polo.

Ecco che anche il viaggiatore di professione resta totalmente disarmato di fronte a siffatti affascinanti spettacoli. Che sottendono, tra l'altro, tutta una complessa storia durata millenni (3.000 - 332 a.C.).

Lo choc culturale, che le Piramidi hanno suscitato, tenderà a replicarsi ancora, più volte.

 Aggiungendo, di volta in volta, ulteriori sensazioni, totalizzanti emozioni, innumerevoli suggestioni: davanti al grande Tempio di Karnak, alle tombe della Valle dei Re, ad Abu Simbel...

DAL DIARIO DI VIAGGIO: CAIRO (I parte)

Al Cairo andiamo ad alloggiare nel grattacielo del Meridien, in Corniche el-Nil [mi accompagnava la compianta amica e collega Cecilia Gatto Trocchi, alla quale ho dedicato il libro]. Garden City. In realtà è sito sulla punta settentrionale dell’isola di Rôdah, una delle due più grandi presenti all’altezza della città.

Il panorama che godiamo dall’alto, specialmente di sera, con la città illuminata, è indubbiamente fantastico.

Tra l’altro ha una posizione strategica, molto comoda per gli spostamenti. 

Per cui è possibile raggiungere Piazza Tahrir e il Museo Egizio, il grande suq di Khan el- Khalîli e la moschea al-Hazar (a nord e nord est), la moschea di Ibn Tulun, le due moschee del Sultano Hassan e ar-Rifai, oltre alla Cittadella con la moschea di Mohammed Alì, ad est.

Ben presto ci rendiamo conto che per i nostri spostamenti sarà assai prezioso uno dei soliti tassisti, che costantemente stazionano sotto l’albergo. 

Grazie a lui avremo modo di visitare in maniera approfondita alcune aree del Cairo.

Anche se, specialmente nelle zone centrali, a volte ci sposteremo a piedi. 

Spesso senza troppe mete prefissate, tra un assaggio di datteri freschi (Cecilia); una fumata, seduto al tavolo di uno dei numerosi maqha (caffè) di shisha, cioè il narghilè (io); o una foto a Cecilia seduta accanto alle bambine e alle donne egiziane.

Nel cortile della moschea di Ahmad ibn Tulun, allora in corso di restauro, dominata dal caratteristico minareto caratterizzato da una scala esterna, si ripete l’usuale e divertente richiesta, da parte della guida locale, di richiedere in sposa Cecilia, che preventivamente mi ha espressamente “consigliato” di figurare come mia moglie.

Dopo aver visitato le moschee “gemelle”, trovandosi ad ambo i lati della strada el-Kalaa, lentamente saliamo sulla Cittadella del Saladino, alle pendici del Moqattam, dove visitiamo la moschea di Muhammad Ali e da una delle terrazze abbiamo dall’alto un’ampia panoramica, sia pure “velata” per l’inquinamento, del centro del Cairo, punteggiato da innumerevoli moschee e minareti.

Qui siamo anche gli involontari spettatori di un piccolo evento, che riuscirà a toccarci nell’anima. Quando due gruppi di turisti, uno israeliano, l’altro arabo, da lassù cominceranno a gridare all’unisono salam e shalom: “pace, pace”.

Ecco poi un’incredibile e stupefacente sorpresa, certamente del tutto inaspettata.

Allorché scopriamo un’oasi di pace e tranquillità urbana all’interno della super fragorosa e caotica Cairo.

Si trova nella Vecchia Cairo, dove visitiamo il quartiere copto, con le sue belle chiese e il Museo, all’interno del Kasr ech-Chamah. 

Senza lasciarci sfuggire la moschea di Amr, del 642 d.C., la più antica dell’Egitto e uno dei più antichi edifici religiosi dell’Islam.

Dovunque andiamo, siamo assillati da quelli che, decenni dopo, saranno gli italici “vu cumprà”. 

Ma anche da un nugolo di guide improvvisate, ognuna delle quali, come nell’area delle Piramidi di Giza, ci fa vedere un rudere particolare, un piccolo tempio, un “importante” piccolo monumento, una minuscola piramide, una delle centinaia di mastabe appartenenti a nobili e dignitari.

E che dire dei numerosi cammellieri, sempre a Giza, che girovagano da una parte all’altra, e vogliono essere fotografati per un bakshish? 

Tanto che Cecilia e io alla fine siamo un po’ stufi di questo noioso andazzo, contro il quale non c’è alcuna difesa.

Quindi un egiziano chiede insistentemente di essere fotografato accanto al suo dromedario, non per soldi, dice, ma perché ama l’Italia. Poi naturalmente esige la mancia: “non per lui, ma per il dromedario”.

Mentre a Saqqara il cammelliere, che per la prima volta ci fa montare su un cammello, al termine ci consegna con sussiego un bigliettino da visita, dove leggo Eid Mohamad Sawaby, Camelman.

La sera prima della nostra partenza per l’Alto Egitto e Abu Simbel, siamo invitati a cena a casa del nostro tassista-anfitrione. 

Una splendida ospitalità tutta araba, nel corso della quale assaggeremo i manicaretti della loro cucina e conserveremo indelebile il ricordo del loro salotto imperiale rosso cardinale, in puro stile Napoleonico.

CONTINUA

DA: VIAGGI IN EGITTO 1980-2009. CROCIERA AEREA E FLUVIALE SUL NILO; AI CONFINI CON IL SUDAN, ALLA RICERCA DI BERENICE TROGLODITICA E DELLA “CAROVANIERA DEGLI 11 GIORNI”; NEL SINAI

(E-Book, versione cartacea a colori e in bianco e nero, 277 pp., 259 note, 271 immagini, di cui 242 a colori (230 foto sono dell’A.):





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TUTTI I DATI (ECONOMICI, STATISTICI, DEMOGRAFICI, ETNOGRAFICI, ECC.) CONTENUTI NEI MIEI LIBRI SONO STATI ACCURATAMENTE VERIFICATI, INTEGRATI E AGGIORNATI AL MOMENTO DELLA LORO PUBBLICAZIONE.

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IL LIBRO E’ DEDICATO ALLA COMPIANTA AMICA E COLLEGA CECILIA GATTO TROCCHI (ROMA, 19 GIUGNO 1939- ROMA,  11 LUGLIO 2005)

Saqqara, dicembre 1980


161. SUI SENTIERI DI GUERRA DEI MAASAI IN AFRICA ORIENTALE. DA: MAASAI. GENTI E CULTURE DEL KENYA



. Quattro guerrieri Maasai, con scudi (elongo) e cimieri di pelliccia in uso specialmente tra gli Il-Wuasin-Kishu, ca. 1890-1923
(Frank and Frances Carpenter Collection, Library of Congress, USA)

I Maasai hanno una tradizione storica ricca di imprese guerresche. Questi nomadi pastori dal 1850 al 1880 costituirono in Africa orientale una formidabile potenza militare, con la quale tutti coloro che si interessarono a quei territori: arabi prima, tedeschi e inglesi poi, dovettero fare i conti.

 Secondo lo studioso Maasai Kantai, i suoi avi spesso si sarebbero limitati a difendersi dalle carovane, sia degli schiavisti arabi, che di quelle dei bianchi ed africane di altre tribù, quando non del tutto pacifiche erano le loro intenzioni.

 Dai loro originali siti posti intorno all’area nilotica, i Maasai dapprima si diressero verso il lago Turkana, nel settentrione del Kenya.

Successivamente si spinsero verso sud. Arrivando, intorno al 1830, a quello che sarebbe dovuto diventare il loro limite meridionale, nell’odierna Tanzania.

 Al tempo della loro massima espansione dominavano un’area lunga, da nord a sud, 800 Km e larga 150. Nel 1857 un gruppo di razziatori costrinse la guarnigione persiana dei Baluchi a ripararsi all’interno di Fort Jesus, a Mombasa. 

I sentieri di guerra dei Maasai in Africa Orientale 
(da J.W. Gregoty, The Great Rift Valley, Londra, 1896)

Nel 1859 un gruppo di guerrieri si spinse sulla costa dell’attuale Tanzania. Distruggendo il porto di Tanga, nei pressi del confine con il Kenya.

Nel 1861 Mombasa era in allarme per una minacciosa ricognizione “in loco” di moran (guerrieri).

Invece l’isola di Zanzibar sarebbe stata sempre risparmiata per via dell’oceano.

Sembra, infine, che un loro commando si sia spinto fin sulle sponde del lago Nyassa (oggi Malawi), a ben 800 km dalla loro terra.  

Nel capitolo dedicato ai Bantu abbiamo visto come alcune tribù appartenenti a quel dominio linguistico rimasero così affascinate dai costumi dei loro bellicosi vicini, che finirono per copiarli.

Il guerriero Kikuyu imitava ogni dettaglio dell'equipaggiamento da combattimento Maasai, come i disegni dipinti sugli scudi (elongo).

Anche se, ovviamente, se ne sarebbero persi gli originali significati Culturali.

In seguito i Maasai sarebbero stati imitati anche da Embu e Chuka.

Del resto ricordo come dall’Africa meridionale provenga un altro esempio di acculturazione indotta da un popolo guerriero. I costumi degli Zulu furono infatti prontamente imitati dai membri delle diverse tribù sconfitte dalle armate del “Napoleone” Chaka (ca.1787-1828).

Da allora questi uomini vennero dispregiativamente denominati “scimmie degli Zulu”.

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