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sabato 10 agosto 2024

189.LA "FERROVIA DEL DESERTO", EGITTO-SUDAN: Churchill; La caduta di Khartoum e del Sudan per opera dei dervisci; La costruzione della “ferrovia del deserto”, 1896-1898, e la "Riconquista del Sudan". DA: IL GIRO DEL MONDO… IN 15 TRENI: TRANSCONTINENTALI E DI LUSSO, DI PENETRAZIONE COLONIALE E MILITARE, DEI CERCATORI D’ORO, DEGLI HAJJI, “ALPINISTICI”

 

La testa mozzata di Gordon mostrata al prigioniero europeo Rudolf Carl von Slatin ad Omdurman
(da: Fire and Sword in the Sudan, 1879-1895, Londra 1896)

Cosa c'è nel libro: 

AFRICA: Alessandria-Cairo, prima ferrovia dell’Egitto, dell’Africa, del Levante; La "ferrovia del deserto", Egitto-Sudan; A bordo di un treno della celebre “ferrovia di penetrazione” Mombasa-Kampala: l'Uganda Railways, Kenya; Il Lézard Rouge dei Bey di Tunisi, Tunisia; ASIA: La Ferrovia dell'Hejaz: La Damasco (Costantinopoli)-Medina; La Ferrovia Costantinopoli (Berlino)-Baghdad La Rumeli Demiryolu e l'Orient ExpressAMERICAWhite Pass and Yukon Route (Alaska, Stati Uniti -Yukon, Canada); Viaggio nella Colombia Britannica a bordo della cabina della storica locomotiva Royal Hudson, Canada; “C'era una volta il treno”... Storia della "Strada della Gente", la ferrovia dell’isola di Terranova, Canada; "Quel treno per Santa Fe": l'Atchison, Topeka e Santa Fe & Railway System nel "selvaggio" Sud-Ovest degli Stati Uniti, tra Natura e Cultura. EUROPAViaggio sulla storica ferrovia Parigi-Saint-Germain-en-Laye, Francia; Le Tramway du Mont-Blanc (T.M.B.): il tram che voleva arrivare sulla sommità del Monte Bianco, Francia;  Treno per Montenvers e la Mer de Glace, Francia. In viaggio da Dublino a Kingstown, oggi Dún Laoghaire, sul primo treno del paese (1834), Irlanda. 

La "ferrovia del deserto", Egitto-Sudan
Churchill

 "Nei racconti di guerra la mente del lettore è occupata dai combattimenti. La battaglia - con le sue vivide scene, i suoi toccanti episodi, i suoi tremendi risultati -, eccita l'immaginazione e attira l'attenzione (...) La lunga linea strisciante delle comunicazioni è inosservata (...) La vittoria è un bel fiore dai colori vivaci. Ma i trasporti rappresentano lo stelo senza il quale non sarebbe mai potuto fiorire. Perfino lo studioso di strategie militari, nel suo zelo di affrontare le affascinanti combinazioni del conflitto attuale, tende spesso a dimenticare le ben più intricate complicazioni dei rifornimenti (...) Combattere i Dervisci fu essenzialmente un problema di trasporto. Il Califfo è stato conquistato dalla ferrovia (...) ma era stata una strana guerra, assai diversa da ogni altra spedizione militare britannica " (...)  Churchill, 1899 (...)

 Con certezza questa ferrovia è stata la prima nella storia, forse anche l'unica, ad essere stata progettata e costruita per motivi prettamente bellici. 

Cioè per trasportare truppe combattenti e materiale sui lontani campi di battaglia. 

Quando approfondii la storia del paese, il Sudan, la sua presenza aveva più volte attratto la mia attenzione, anche se solo di sfuggita (...)

  La caduta di Khartoum e del Sudan per opera dei dervisci [mahdisti]

 Andando con il pensiero solo ad alcuni tra i "punti-chiave" ad essa collegati, ecco: la presa di Khartoum; l'uccisione del grande Charles Gordon Pasha (...) e l'arrivo, davanti a Khartoum, delle forze britanniche, dopo solo due giorni dalla caduta della città per mano dei mahdisti (i dervisci); il Nilo con le sue insormontabili e sempre pericolose cataratte; la riconquista del Sudan; Kitchener. Oltre all'Egitto e, naturalmente, al deserto del Sahara che, incontrastato, domina su tutto... 

 L'incredibile tragedia della caduta di Khartoum del 1884, con l'aggravante della pressoché sincrona "beffa sudanese" a danno degli europei, che per un soffio giunsero troppo tardi, poiché impastoiati, tra Londra, Cairo e Khartoum, da: ingessate burocrazie, contrastanti visioni politiche in patria, difficoltosi adattamenti climatici, impossibilità materiale di muoversi speditamente a dorso di cammelli o, sul Nilo, a bordo dei vaporetti o delle feluche arabe, dodici anni più tardi consigliarono a Kitchener di pensare, innanzitutto,... alle comunicazioni. 

 L'ostacolo maggiore, infatti, nonostante quello che si pensava a Londra e al Cairo, non era rappresentato dai dervisci del Califfo, che occupavano Khartoum e il Sudan, bensì dal deserto, che si frapponeva tra le due armate. 

Lo si doveva attraversare nel più veloce tempo possibile. In quell'epoca solo una ferrovia l’avrebbe consentito.  (:..)

E la morte di Gordon Pasha, nonché quella di tutti coloro che, assieme a lui, caddero difendendo Khartoum, avevano insegnato a Kitchener che l'eventuale riconquista non poteva che ripartire da una linea di comunicazione efficiente e rapida. Allora fu presa la triste decisione di abbandonare il Sudan al suo fosco destino... 

 A quei tempi per arrivare dal Cairo fino alla sudanese Dongola, quasi al termine dell'immensa ansa sudanese del Nilo, uomini e materiali dovevano percorrere un itinerario misto di 1.033 miglia: 271 su treni, 528 su battelli a vapore, 93 su cammelli. 

Infine a bordo di feluche (...)

Nel 1874 la ferrovia egiziana raggiungeva Assiut, 230 miglia nel meridione, mentre solo nel 1898 collegherà Luxor (...) 

Nel frattempo una ferrovia a scartamento ridotto da Luxor arrivava ad Assuan. 

 Al tempo dell'assedio mahdista di Khartoum, i militari avevano cercato di estendere la strada ferrata. 

Nel 1884 da Assuan raggiungevano Shellal, al di là della prima cataratta. Ma le impossibili condizioni del terreno montagnoso e roccioso del deserto nubiano ne sconsigliarono l'ulteriore prosecuzione fino al confine con il Sudan e a Wadi Halfa (...)

La costruzione della “ferrovia del deserto”, 1896-1898, e la "Riconquista del Sudan" 

Kitchener nel suo reiterare, amplificandolo, il ruolo portante della ferrovia, fu abbastanza fortunato. Allora non sapeva ancora che, di lì a poco, avrebbe trovato una sponda formidabile in un uomo d’eccezione (...). 

 L'uomo giusto, che lo aiutò nel momento giusto, fu quindi Percy Girouard (...). Ingegnere franco-canadese del genio militare, con una preziosa e profonda esperienza acquisita nel corso dei due anni trascorsi in qualità di surveyor della Canadian Pacific, la linea ferrata che era stata ultimata da poco e che collegava l'Atlantico al Pacifico. 

In seguito, a partire dal 1888 e per otto anni, il lavoro svolto nel corpo dei British Army Royal Engineers lo portò a teorizzare la possibilità di utilizzare proficuamente, in caso di guerra, le potenzialità insite nella ferrovia (...) . 

Al canadese fu richiesto di costruire una ferrovia attraverso il deserto del Sudan, alla media di un miglio al giorno! 

Un’impresa gigantesca, al tempo stesso complessa e quanto mai proibitiva, alla quale si sarebbe dedicato un apposito battaglione ferroviario. 

In realtà la media realizzata oltrepassò il miglio. 

 Arrivando, in qualche caso, addirittura alle tre miglia! 

D'altronde bisognava far presto, e sul serio. 

Non come nel 1884. 

E non tanto per i dervisci... Se l'opinione pubblica britannica si preoccupava per una possibile, ulteriore débâcle nel deserto, considerato che il precedente storico deponeva a sfavore di una qualsiasi campagna militare positiva (...), bisognava pure evitare che le altre potenze coloniali, francesi e belgi soprattutto (...) potessero trarre vantaggi territoriali dall'instabilità politica dell'immenso Sudan mahdista (...). 

Il quartiere generale anglo-egiziano fu così stabilito a Wadi Halfa e la campagna militare iniziò nel marzo del 1896. 

 Mappa dell’Egitto e del Sudan
(da Alfred Milner, England in Egypt, 1894, British Library)

Già a settembre di quell'anno il Sirdar Herbert Kitchener conquistava Dongola, tra la terza e la quarta cataratta. Nel frattempo si dava mano alla riparazione della vecchia ferrovia, che venne completata nel 1897 (...). 

Così i convogli ferroviari sostituirono egregiamente nel nord i trasporti cammellati e quelli fluviali. 

 Infine si arrivò ad Abu Hamed, 232 miglia più a sud. 

Qui le truppe incontrarono una fiera resistenza da parte mahdista. In seguito la ferrovia fu ulteriormente estesa. 

Il 7 luglio del 1898 raggiungeva Atbara, alla confluenza dell'omonimo fiume con il Nilo. 

In soli sette giorni vi si poté accumulare un gigantesco deposito di materiali e cibo capace di supportare per tre mesi i 25.800 uomini, di cui 8.600 britannici, dell'esercito di Kitchener. In tutto si collocarono 576 miglia di binari, il nucleo originario della rete ferroviaria dell'attuale stato del Sudan (...). 

DA: IL GIRO DEL MONDO… IN 15 TRENI: TRANSCONTINENTALI E DI LUSSO, DI PENETRAZIONE COLONIALE E MILITARE, DEI CERCATORI D’ORO, DEGLI HAJJI, “ALPINISTICI” 


241 pp., 223 foto, di cui 136 a colori (102 sono dell'A.), 254 note, bibliografia 

E-Book: https://www.amazon.it/dp/B07XPFQGLW

Versione cartacea a colori:  https://www.amazon.it/dp/1692957171 

Versione cartacea in bianco e nero: https://www.amazon.it/dp/1693164949 

giovedì 25 luglio 2024

171. NEL SUDAN MERIDIONALE, LUNGO IL NILO BIANCO, SULLE TRACCE DELL'OTTOCENTESCA E INCREDIBILE "SPEDIZIONE" TRANS-AFRICANA DI JEAN-BAPTISTE MARCHAND: SEIMILA CHILOMETRI DI GIUNGLA PORTANDO SULLE SPALLE UN BATTELLO A VAPORE SMONTATO. DA: ALLA SCOPERTA DEL MONDO. Archeologi, Esploratori, Grandi Viaggiatori,Geologi, Naturalisti, Paletnologi. VOL.2 AFRICA


La spedizione Marchand in marcia

LA GRANDE STORIA 

" A volte la Storia con la S maiuscola è stata scritta in posti del tutto anonimi e remoti, sconosciuti e selvaggi, lontani dalla cosiddetta "civiltà". 
Spesso persino difficili da raggiungere, non solo per gli ostacoli che frappone la natura.
IMPROVVISAMENTE ECCO ARRIVARE L'EVENTO…
  È incredibile, ma riesce a trasformare quel luogo "impossibile" in un simbolo. 
Nel nostro caso anche straordinariamente affascinante. 
Certo, se le cose fossero andate differentemente, il tutto avrebbe potuto assumere tinte più forti e fosche, se non terribili. 
Poiché la sua carica dirompente avrebbe potuto coinvolgere tragicamente l'esistenza di milioni di persone... [POICHE'AVREBBE POTUTO PROVOCARE UNA GUERRA TRA FRANCIA E INGHILTERRA, ALLA FINE DEL XIX SECOLO]

UN LUOGO CHE, PIU' REMOTO DI COSI,' NON POTEVA ESSERE...  
   Ecco le coordinate geo-temporali della nostra località: un villaggio indigeno posto lungo il corso di un fiume importante, ma a diverse centinaia di chilometri di distanza dal primo centro urbano degno di questo nome e situato all'interno di una regione africana pressoché isolata dal mondo esterno. Da molti anni ormai è infatti sanguinosamente sfuggita di mano agli artigli delle potenze coloniali europee. In quell'epoca, perciò, il villaggio è totalmente irraggiungibile per gli esploratori e i militari europei.
UNA LUNGA STAGNAZIONE
   Poi, dopo una lunga stagnazione, ecco che tutto ad un tratto la storia si rimette in marcia, a nord come nel sud. 
Dapprima lentamente, poi sempre più freneticamente. 
L'abbrivo è forte.
 FINALMENTE SI VUOLE RICONQUISTARE IL SUDAN, DA 13 ANNI IN MANO AI DERVISCI, CHE HANNO PRESO KHARTOUM, UCCIDENDO IL GRANDE GORDON PASHA
Gli attori sono diversi: sudanesi, egiziani, turchi, inglesi, francesi.
 La posta in gioco è altissima: la riconquista dell'immenso territorio del Sudan. 
LA MISSION IMPOSSIBLE DI  UN PUGNO DI FRANCESI
Ma potrebbe essere ancora più elevata, quando in discussione sarà messo il prestigio di una grande e orgogliosa nazione come l'Inghilterra, per colpa di un pugno di eroici francesi, che hanno effettuato un'autentica Mission Impossible. 
La loro è stata realmente un'impresa incredibile...
Espletata da uomini ben motivati e altamente addestrati che, partendo da molto lontano, dalle sponde dell'Atlantico, sono arrivati in quello sperduto villaggio del Sud Sudan.
   La non nascosta intenzione di quel pugno di arditi è di inchiodare un intero esercito europeo nel nord del paese. 
SI INTENDE BLOCCARE IL SOGNO DI UNA COLONIZZAZIONE  BRITANNICA NORD-SUD, DAL CAIRO A CITTA' DEL CAPO.
Ostacolando seriamente la realizzazione del vecchio sogno imperialista inglese di costruire una via - e una colonizzazione - Cairo-Capo. 
REALIZZANDO UN COLLEGAMENTO IMPERIALE FRANCESE OVEST-EST, TRA DAKAR (AOF; OGGI SENEGAL) E GIBUTI (SOMALIA FRANCESE)
E rimpinguando, in tal modo, il bottino coloniale del governo di Parigi, con un'omologa unificazione coloniale Dakar-Gibuti.
 Tutto ciò quando l'Inghilterra, a distanza di tredici anni, cerca di rimediare all'onta subita nel 1885 per la presa di Khartoum e l'uccisione del grande Gordon Pasha, ad opera dei seguaci del Mahdi - il “ben guidato”, il profeta - Mohammed Ahmed ibn Seyyid Abdullah. 
Va ricordato come per l'Africa intera l'epopea della Mahdiyya abbia rappresentato uno dei più grandi ed autentici fermenti nazional-religiosi a carattere anticoloniale del XIX secolo.
NEL CORSO DELLE MIE RICERCHE NELL'ARCHIVIO DEL SUDAN (UNIVERSITA' DI DURHAM, INGHILTERRA SETTENTRIONALE), SCOPRO UNO STRAORDINARIO  MANOSCRITTO ARABO, NEL QUALE SI  ACCENNA ALLA CONTEMPORANEA PRESENZA  DI TRUPPE INGLESI NEL NORD E FRANCESI LUNGO IL NILO BIANCO, A SUD   
   Ma restiamo ai fatti:
   “Gli inglesi e i francesi stanno venendo sul Nilo Bianco da est e da ovest (...) Ho mandato il mio esercito lungo il Nilo Bianco, sii attento e non degnare di attenzione le storie di mercanti che hanno un loro (...) scopo (...) Sii forte e non permettere agli stranieri di farci disperare (...) Ti ho mandato un messaggero (…)"
   Così lessi in un vecchio manoscritto arabo da me rintracciato nell'Archivio dell'Università di Durham (Inghilterra settentrionale)
È una lettera di un capo mahdista del settembre del 1898 inviata ad Omdurman al Califfo Abd Allahi Muhammad Turshain, che nel 1885 aveva preso il posto del Mahdi deceduto. 
Sia pure in ritardo lo avvisa dell'avvicinarsi degli inglesi di Kitchener, che già occupano Omdurman, ma anche della straordinaria presenza nella regione del Nilo Superiore di un pugno di soldati francesi.
NEL CORSO DELLA MIA SECONDA SESSIONE DI RICERCA ANTROPOLOGICA NELLA CITTA' DI MALAKAL, INCONTRO E INTERVISTO IL "RE DIVINO" DEL POPOLO DEGLI SHILLUK, VISITO FASHODA E OSSERVO LA RESIDENZA DI MARCHAND, ANCORA SUL POSTO... 
(...) Nella mia ultima sessione di ricerca nel Sud Sudan (1980-1981) ebbi la possibilità di recarmi a Fashoda (...)

La residenza del Capitano Marchand sulla sommità di una collinetta (© Franco Pelliccioni)
(...) All'ispettore, che preventivamente lesse, approvandolo, il testo delle domande da rivolgere al monarca, manifestai il desiderio di visitare il forte Marchand, che secondo la mia carta topografica del 1975, doveva pur essere nei paraggi. 
Ad una cinquantina di metri dal Rural Council, dove in quel momento mi trovavo, cioè dal centro della cittadina, sorgeva infatti una bassa costruzione, non troppo mal ridotta e di puro stampo coloniale. 
Era tuttora abitata. 
Quella, mi riferì l'ispettore, era stata la residenza di Marchand (...) 
   In seguito verrò accompagnato al locale posto di polizia, cioè a quello che era stato il quartiere generale di Marchand
Dall'alto di una delle pareti esterne, una placca del 1898 ricordava la brillante impresa francese
Considerato l'assoluto divieto esistente in Sudan di fotografare edifici militari o della polizia, la potrò riprendere solo dopo che l'ispettore fornirà esaurienti spiegazioni, sulla mia presenza e su quelli che erano i miei scopi, ai poliziotti seduti nell'attigua veranda".  

DA: ALLA SCOPERTA DEL MONDO. VOL.2 AFRICA
Archeologi, Esploratori, Grandi Viaggiatori,Geologi, Naturalisti, Paletnologi
E.Book e versione cartacea in bianco e nero di grandi dimensioni (16,99 x 1,17 x 24,41), 224 pp., 109 note,  bibliografia, 179 immagini (20 sono dell'A.) 

lunedì 3 luglio 2023

101. A proposito del primo episodio della serie Shetland (trasmesso nuovamente ieri in televisione), dello storico Shetland Bus, del vichingo Up-Helly-Aa e dei miei libri, in italiano e inglese, sull'arcipelago

 

Fotogramma di un episodio (Copyright BBC Scotland)

Ieri sera non potevo non rivedere il primo episodio della serie Shetland. 

Perchè l’idea di realizzare i libri in italiano e, poi, in lingua inglese su queste magnifiche isole nordiche scozzesi, mi è venuta proprio guardando alcune puntate di questa serie televisiva [tratta dai romanzi di Ann Cleves e adattata per la televisione da David Kane] prodotta dall’ITV, per la BBC Scotland. Arrivata in Italia per la prima volta nel 2018. 

Il cui protagonista è un detective della polizia di Lerwick che, ovviamente con successo, indaga sugli omicidi perpetrati nella Mainland, la principale isola dell’arcipelago. 

Tra l’altro il detective Perez è originario di Fair Island, l’isola più meridionale dell'arcipelago, a metà strada tra le Shetland e le Orcadi.

Douglas Henshall (detective Jimmy Perez) e Ann Cleeves (autrice dei romanzi) al Bloody Scotland International Crime Writing Festival, 2017, 9 September 2017 (Some rights reserved, TimDuncan)

Inaspettatamente avevo provato una forte sensazione di nostalgia, osservando nuovamente sullo schermo quell’ambiente così completamente differente da quelli mediterranei. 

Quasi sempre caratterizzato da chiaroscuri di inusitata, seppur singolare, bellezza. 

Che si fanno presto da parte, dopo uno forte scroscio di pioggia, lasciando spazio a vividi colori, che paradossalmente fanno la loro comparsa, uno ad uno. 

I panorami maestosi, le gigantesche scogliere a picco sul mare, le nuvole basse, l’atmosfera decisamente subartica, mi avevano fatto tornare alla mente che quelle isole potevano realmente rappresentare, ca. 2.500 anni fa, l’ultima terra abitabile dell’ecumene. 

Perché, anche ad una latitudine del resto non eccessiva, avrei perfino potuto avere la fortuna di ammirare, alte nel cielo notturno, le sciabolettanti e fantasmagoriche aurore boreali dell’Ultima Thule

Quel viaggio nordico, effettuato oltretutto in una stagione proibitiva (mese di dicembre), avrebbe rappresentato per me il primissimo approccio ad una realtà ecologico-culturale radicalmente diversa da tutte quelle che fino ad allora avevo conosciuto (Sudan, Kenya, Messico). 
Che l’anno appresso, con la mia ricerca tra sei comunità Inuit dell’Artico canadese, si sarebbe andata rafforzando. 

Poiché nel mitico Passaggio a Nord-Ovest mi sarei spinto ancora più a nord, a non moltissima distanza dal Polo Magnetico…

Tra l’altro in quelle isole scozzesi l’ex africanista, quale io ero, avrebbe “incontrato” per la prima volta i Vichinghi. 

Un iniziale approccio, che si sarebbe dovuto consolidare in seguito. Poiché le Shetland inconsapevolmente rappresentarono la prima di numerose “tappe” del mio futuro peregrinare sulle tracce del cosiddetto movimento vichingo d’oltremare, che mi avrebbero condotto: ancora a sud-ovest (Orcadi, Scozia e Inghilterra nord-orientale, Ebridi Esterne, Fær Øer, Dublino), verso nord (Svalbard), verso ovest (Terranova, Islanda, Groenlandia, Labrador), verso sud (Normandia), verso est (Russia).

Grazie al quel viaggio di studio, prima delle Shetland, poi delle meridionali Orcadi, sia pure involontariamente sarebbe stato gettato il primo seme di ciò che anni dopo si sarebbe trasformato nel mio Programma sulle Comunità Marittime dell’Atlantico Settentrionale.

Lo Shetland Bus

Creato nell’autunno del 1940 dalla Special Operations Executive Norwegian Section, contribuì a far arrivare clandestinamente nelle Shetland numerosi membri della resistenza norvegese, in fuga dal paese occupato dai tedeschi. 

All’inizio la sua base era Lunna, nel nord-est di Mainland, l'isola principale, dove si trova Lerwick. 

Poi fu spostata a Scalloway, l'altra cittadina dell'isola. 

La Norway House e lo scivolo “Prince Olav”, ambedue utilizzate dallo Shetland Bus, sono oggi ancora visibili a Scalloway. 

Dove la sua avventurosa storia è descritta nel Museo cittadino. 

In totale circa 30 furono i pescherecci utilizzati dai rifugiati norvegesi.

Il vichingo Up-Helly-Aa a Lerwick

A Lerwick, nella notte di ogni ultimo martedì di gennaio, squadre di guizers [guizing è un'espressione dialettale della Cornovaglia. Descrive un'usanza in cui i festaioli si travestono in modi differenti, impegnandosi nella musica, nel canto, nella danzain costumi vichinghi e torce in mano, incendiano nel centro della città una replica di una "lunga nave”, con la prua dalla testa di drago. 

Gli uomini, a conclusione della festa, fanno un giro, rigorosamente completo, di una serie di sale da ballo, discoteche, scuole, impianti sportivi, alberghi. 

In ogni sala, ogni squadra esegue uno show, che può richiamare un programma televisivo, un film popolare, una gag su eventi locali, un canto, una danza. 

Il giro è riservato ai soli partecipanti, che vengono così ringraziati per il lavoro volontario durato molti lunghi mesi. 

In forma riveduta e corretta, questa è la festa vichinga della fine di Yule. 

Allorché, dopo un lungo buio e rigido inverno, si salutava festosamente il lento riapparire del sole.

In effetti un tipo di festa "pagana", simile ad altre festività scozzesi, era già in vigore dal 1881. 

Allora i guizers erano in abiti carnascialeschi e non bruciavano navi vichinghe. Nel 1889 subì una netta norvegisizzazione. 

Grazie al poeta cieco di Lerwick, James John Haldane Burgess (1862-1927), che seppe rivitalizzare il legame con l’originaria tradizione norvegese. 

Tanto che la sua canzone è ancora oggi intonata nel corso della festa. 

Un tempo, i nostri padri focosi sfrecciavano sul Sentiero dei "Vichinghi"; 

Un tempo, i loro temuti draghi sfidavano l'oceano nella sua ira; 

E noi, i loro figli, stiamo raccogliendo i risultati della loro gloria. Le onde stanno arrivando (...) 

La nostra galea è il Diritto del Popolo, il drago della libertà, il diritto che, crescendo nella sua potenza, porta i tiranni alle loro ginocchia. 

La bandiera che sventola sopra di noi è l'Amore della Libertà. 

Le onde stanno arrivando".


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domenica 21 agosto 2022

57. IL RAPPORTO NATURA-CULTURA TRA I POPOLI A "TECNOLOGIA SEMPLICE": CACCIATORI-RACCOGLITORI, COLTIVATORI, ALLEVATORI

 

Boscimani (San) della Namibia, 2017 (CC Some rights reserved, Rüdiger Wenzel) 

IN OCCIDENTE E NEL TERZO MONDO

Come ben sappiamo, il rapporto che da secoli si è instaurato nel mondo euro-occidentale tra natura e cultura, tra l'ambiente e l'uomo, è stato solo di tipo conflittuale: dominazione, sfruttamento, consumo, rapina, sia concretamente, nei fatti, sia negli atteggiamenti culturali (ideali, mentali). Come antropologo non posso che concordare con quello che altri: ecologi, geografi, sociologi, economisti, filosofi, storici, hanno già, e da tempo, individuato come un assioma storicamente determinatosi. Il mio compito adesso è quello di dare voce anche alle culture "altre", cioè ai popoli e alle culture del Terzo Mondo, per vedere più da vicino quello che risulta essere anche il loro rapporto uomo-natura. In proposito va premesso quanto segue: in un mondo superdegradato e in preda a mille angosce e paure esistenziali, qual è il nostro, non possiamo ritenere che i popoli "diversi da noi" (cacciatori-raccoglitori, coltivatori e nomadi pastori) abbiano un rapporto di tipo idilliaco con la natura. Da molte parti e da diverso tempo stiamo assistendo ad una sorta di rinascita del mito del bon sauvage, quasi sempre connesso e mirato, oggidì, all'ambiente che lo circonda. Altre volte, come nel caso dell'indio amazzonico, in toto. Alcune osservazioni sono perciò d'obbligo e successivamente, parlando delle problematiche ambientali, saranno riprese e ulteriormente puntualizzate.

I "nuovi" miti attraverso le lenti dell'Occidente

Non credo che sia il caso di mitizzare il rapporto uomo-natura, esistente tra i cosiddetti "primitivi", come in altre epoche si è idealizzato lo stesso "selvaggio". Molto semplicemente si può affermare come l'uomo, sempre e dovunque, abbia visto il contesto ambientale come un contenitore da sfruttare, onde poter sopravvivere. Ma ci sono delle differenze in questo, alcune fondamentali, altre d'importanza secondaria. Vediamo ora quali siano. Raggruppando i gruppi a "tecnologia semplice", secondo la classica tassonomia, che si basa sull'attività economica perseguita: cacciatori-raccoglitori, coltivatori, allevatori.

Il rapporto natura-cultura presso i popoli cacciatori raccoglitori

"Il mio cuore è tutto felice, il mio cuore si gonfia nel cantare, sotto gli alberi della foresta, la foresta che è la nostra casa e la nostra madre" (canto dei pigmei Mbuti dell'Ituri, Zaireda TURNBULL C.M. 1978, Man in Africa, London: Pelican Books)

"La foresta è un padre ed una madre per noi e come un padre ed una madre ci dà ogni cosa di cui necessitiamo - cibo, vestiti, riparo, tepore... e affetto. Normalmente ogni cosa va bene, perché la foresta è buona con i suoi figli, ma quando le cose vanno male ci deve essere una spiegazione" (detto da: Moke, pigmeo Mbuti) (da: TURNBULL C.M. 1977 (1972), Il popolo della montagna)

Paul Schebesta con due uomini Mbuti- World Museum Vienna, Austria - CC BY-NC-SA. 

https://www.europeana.eu/item/15504/VF_62288

Le bande - o gruppi con un massimo numerico di individui tale da consentire lo sfruttamento ottimale dell'ambiente circostante - di cacciatori-raccoglitori, sparse in diverse aree del pianeta, esercitano un'attività economica, che è di tipo acquisitivo puro e semplice. Cioè, come potremmo dire noi occidentali, non produttivo ma parassitario. Esse utilizzano ciò che si trova nell'ambiente: radici e tuberi, frutti spontanei e vermi, insetti, miele selvatico e selvaggina. In una parola tutto ciò che è commestibile. Altre volte si aggiungerà, praticata nelle radure delle foreste, anche un tipo di orticoltura semi-spontanea. Il rapporto natura-cultura tra questi popoli (indios amazzoniciboscimani del Kalahari, aborigeni australianieschimesi (Inuit)pigmei asiatici e africani, ecc.) potrebbe essere definito di tipo armonico, anche se certamente non è idilliaco. Come ben sanno gli etno-antropologi, in particolare coloro che hanno direttamente studiato e perciò hanno condiviso, per un periodo della loro vita, il ritmo esistenziale di queste popolazioni, tra le mille difficoltà di ogni giorno: nella caccia, nel reperimento dell'acqua da bere, nei lunghi, pericolosi e faticosi spostamenti, ecc....

Ho detto che si prende ciò che si trova e per farlo bisogna sapere dove, come, quando, e che cosa poter prendere... Questi gruppi umani hanno una conoscenza del territorio, delle piante e degli animali, estremamente particolareggiata. Qui etnoscienza ed etnomedicina sono assai sviluppate.

Il rapporto natura-cultura presso i popoli coltivatori della savana e della foresta

"Hii saa Brii Mau-Yaang Gôo", "abbiamo mangiato la foresta della pietra genio Gôo"(...) indica a Sar Luk [villaggio Mnong di Yoo Sar Luk, Vietnam] l'anno 1949, o più esattamente l'anno agricolo che va dalla fine di novembre del 1948 ai primi di dicembre del 1949 (...)

Divora, o Fuoco fino al midollo, divora le foglie fino all'anima. Io imito l'Antenato di un tempo, imito la madre di ieri, imito l'Avo di altri tempi. Mi hanno insegnato a soffiare il fuoco dei Rnut: così io soffio. Il fuoco dei Rnoh mi è stato insegnato ad accendere, così io lo accendo (...) Io taglio il figlio della Pianura, ad imitazione degli Antenati; abbatto il figlio dell'Albero, ad imitazione degli Antenati; dissodo la foresta e la boscaglia ad imitazione degli Antenati" 

(da CONDOMINAS G. 1960, Abbiamo mangiato la foresta, Milano: Baldini e Castoldi)

Villaggio Mnong, Vietnam, 2016 (CC, Some rights reserved, Clover9527)

Sono popoli che con la natura hanno un rapporto che dovrebbe essere di tipo conflittuale, nel "concreto". Anche perché la tradizionale metodica che impiegano è quella dello slush and burn, cioè del taglia e brucia. È così che, anno dopo anno, numerosi gruppi umani si "mangiano" letteralmente intere sezioni di foresta o di savana. Spostando continuamente i propri insediamenti fino a che, alla fine del ciclo, dopo un certo numero di anni, si ricomincerà nuovamente a lavorare sul primo terreno.

Il legame che si instaura con la natura è però mitigato da molti fattori culturali: gestione comunitaria dell'attività coltivatrice, dettata dal possesso (e non dalla proprietà) degli appezzamenti dei terreni.

La terra presso questi popoli è la "Madre Terra". Cioè là dove sono sepolti gli antenati e dove torneranno gli individui di tutte le generazioni, presenti e future. È sempre la Terra che darà, anno dopo anno, i buoni frutti dei raccolti.

La terra, a causa di questa sua "doppia" sacralità: la terra che sfama i vivi e che accoglie nelle sue braccia i defunti, appartiene di norma alla comunità, all'intera comunità. Solo il possesso rimane agli individui per l'uso esclusivo della coltivazione.

Quando la cooperazione internazionale ebbe l'idea di creare nei PVS (paesi in via di sviluppo) [in seguito saranno anche definiti in "via di sottosviluppo"…!], il sistema cooperativistico, allo scopo di sfruttare più efficacemente i terreni agricoli secondo il punto di vista europeo, non ha fatto altro che sfondare una porta già completamente aperta. Da sempre!

Albert Abril in Amazzonia con una famiglia Zo'è, 2007 (CC, Some rights reserved: Albert Abril)
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Il giornalista catalano Joan Albert Abril i Pons, corrispondente di guerra, documentarista e regista, già docente universitario, ha effettuato diverse spedizioni tra le tribù indie amazzoniche contattate negli ultimi anni da missionari e dal Funai brasiliano: Xipaià (1999), Kaiapó (1999), Araweté (1999), Sateré-Mawé (2003), Zo'è (2007-2010), Ero completamete all'oscuro dell'esistenza di questo piccolo gruppo indio del Parà, Un nome che immediamente non potevo che associare alla striscia a fumetti di "Arturo e Zoe", letti da bambino. D'altronde il primo contatto con il mondo esterno di questi indios risale solo al 1982 e quello "definitivo" al 1987. L'etnonimo significa "noi". 
Queste due foto sono le uniche che è possibile pubblicare, poichè prive di copyright. Anche se alcuni diritti sono riservati (i nomi degli autori). 


Due donne della tribù Zo'é dello Stato brasiliano del Pará, 2013 (CC Some rights reserved: Danielzsilva
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Facendo ulteriori ricerche sul Web, sia su Abril (su Wikipedia figura anche come April...), che su questo gruppo etnico, mi sono imbattuto su un articolo pubblicato a gennaio. Il suo titolo, ma soprattutto l'immagine d'apertura del "pezzo", mi suonava invece molto famigliare... Perchè il fatto mi aveva allora commosso! Anche i nostri telegiornali l'avevano riportato. Certo non sapevo,  allora, come i due indios visti in televisione appartenessero proprio all'etnia Zo'é. 

Il loro è stato uno straordinario caso di amore filiale: Tawy   ha infatti portato sulle spalle, per farlo vaccinare contro il Sars Cov 2, il padrsessantasettenne Wahu. Impossibilitato a camminare, a causa della sua artrosi alle ginocchia. Attraversando la giungla, guadando fiumi, salendo sulle colline. Un tragitto durato, tra andata e ritorno, ben dodici ore,   

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È stata invece l'introduzione, ai tempi del colonialismo, di un sistema economico basato sul mercato e sulla moneta, e quindi anche sulla proprietà individuale, sull'imposizione delle tasse e sull'enorme diffusione della monocoltura, utile al mercato metropolitano, a creare una falla, tuttora aperta, in molte aree del mondo, che solo l'"innovatrice" idea delle cooperative ha contribuito, in qualche modo, a tamponare. Ritornando, sia pure in parte, alle antiche, tradizionali concezioni della terra comunitaria.

Ho sostenuto come questi popoli abbiano un rapporto conflittuale con l'ambiente, anche se le tecnologie tradizionalmente impiegate, nei tempi tradizionali (a parte i diboscamenti, che oggi non sono cosa da poco), in realtà non recano gravi danni all'ambiente.

Si può altresì affermare come i gruppi umani dediti alla coltivazione facciano ricorso alle istituzioni magico-religiose al fine di instaurare idealmente e ritualmente, cioè culturalmente, un rapporto diverso, in fondo più rispettoso dell'ambiente. Le rappresentazioni individuali e collettive dei coltivatori, nonché gli elementi magico-religiosi da essi "attivati", denotano, quindi, una forma rispettosa della natura.

In conclusione, se da un lato l'ambiente viene forzato con tagli, incendi, diboscamenti, dissodamenti, ecc., dall'altro la cultura cerca di porre idealmente riparo alle "ferite" inferte. Utilizzando altri strumenti, non tecnologici, ma cultuali, rituali. Facenti sempre parte della medesima cultura alla quale appartengono singoli individui e gruppi.

Il rapporto natura-cultura: presso i popoli nomadi "puri" e transumanti

"Ring Giir, Il Grande Biancofiore, Mio padre Ring, fu chiamato da suo padre. Egli lo fece sedere al suo fianco, lo carezzò e gli disse queste parole: "Figlio, Ring, là c'è il bestiame, O figlio, il bestiame è la prosperità dell'uomo. Mio Nonno aveva un wut (cattle camp), il suo campo divenne ricco di mandrie e di uomini, le stelle si riempirono di vacche..." (canto dei Ngok Dinka, Sud Sudan)

(da: DENG F.M. 1971, Tradition and Modernization. A Challenge for Law among the Dinka of the Sudan, New Haven and London: Yale University Press)

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Nel marzo del 1979 a Khartoum ero in attesa di recarmi nella cittadina meridionale di Malakal, ad 850 km più a sud. Dapprima attraversando il deserto in jeep per un’intera giornata, poi risalendo il leggendario Nilo Bianco, a bordo di un vetusto battello a pale posteriori, per quattro fantastici giorni.


Tra i miei numerosi impegni e incontri programmati a Roma (Ambasciata, Alitalia, Agip, Università, Missionari), era previsto che incontrassi, per via protocollare, il Ministro di Stato per gli Affari Esteri Sudanese nel suo Ufficio. Grazie all’interessamento, sia dell’Ambasciata del Sudan a Roma, che di quella italiana a Khartoum. Non per un fatto meramente elitario o snobistico. Ma perché il Ministro, oltre ad essere lui stesso un antropologo, era il massimo interprete del popolo dei Dinka, al quale appartiene. Suo padre, Majok Deng, era il Paramount Chief dei Ngok Dinka del Kordofan.

Ma Francis Mading Deng (1938- ), autore del libro da me sopra citato, era ed è stato molto più di un antropologo. Perché è stato un diplomatico (Ambasciatore del Sudan in Canada, Stati Uniti, Danimarca, Finlandia, Norvegia, Svezia), uno scrittore, un politico e, dal 2012 al 2016, primo Ambasciatore del Sud Sudan (indipendente dal 2011) all’ONU. Ha studiato e si è laureato in diverse Università. Come quella di Khartoum, Yale (USA)il King’s College e la School of Oriental and African Studies di Londra. Infine ha scritto oltre una trentina di libri: giuridici, sui diritti umani, di antropologia e folklore, storici, politici. Nel 1979 in suo cursus honorum era già abbastanza ricco. Certo non come oggi…


Quello straordinario incontro di decenni fa è stato invero emozionante per il giovane studioso. Davanti a me avevo una figura che riusciva bene ad incarnare la tradizione della propria gente, coniugandola con la modernità. Collegando il passato al presente. Ma soprattutto al futuro. Come poi si verificherà puntualmente. Allorché il Sud Sudan diverrà finalmente indipendente. Nonostante tutti i sofferti e travagliati trascorsi storici.


Interessato al mio precedente studio sulla cittadina kenyota di Isiolo, fu prodigo di consigli su Malakal. Altra cittadina multietnica e multiculturale. Dove convivevano, allora pacificamente, le genti del Sud, come i Nilotici allevatori Dinka, Nuer, Shilluk, Anuak, ma anche i Nuba del Kordofan. Oltre agli arabi (od arabizzati) del Nord.

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Uomini Dinka con lance, collane e bracciali, Kodok, Sud Sudan
                       The Swedish Rhodesia-Congo Expedition (1911–1912): Rosen, Eric von  (1912). Från Kap till Alexandria: Reseminnen från svenska Rhodes.The National Museums of World Culture (Världskulturmuseerna)Stockholm / Göteborg
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Eric von Rosen (1879-1948) è un personaggio a dir poco singolare. Infatti è un ricco conte. Possiede il castello di Rockelstad (XIV secolo). È pilota d'aereo. Sarà addirittura il futuro cognato di Göring. Ma è anche un esploratore ed etnografo. Dopo aver effettuato nel 1900 una spedizione in Lapponia, partecipa alla Spedizione Svedese Chaco-Cordillera, 1901-1902: Argentina-Bolivia) diretta da Erland Nils Herbert Nordenskjöld, figlio del grande esploratore artico Nils Adolf Erik Nordenskjöld, Missione che riceverà anche il suo prezioso patrocinio. Nel 1909 effettua un’altra spedizione dal Capo ad Alessandria, marciando quasi sempre a piedi. La foto si riferisce invece a quella organizzata nel 1911-12, per studiare i poco conosciuti pigmoidi Batwa nei pressi del lago Bangweolo, al confine con il Tanganyika (oggi Tanzania).

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Ragazza Dinka, ca. 1877-1880, di Richard Buchta (Pitt Rivers Museum, Oxford)

Quello che è stato detto per i coltivatori, può essere esteso ai gruppi umani che si dedicano ad un'economia di allevamento. Essi sfruttano i prodotti forniti dagli animali (latte, sangue, sterco) e gli animali stessi, sia morti (carni e pelli) che vivi (trasporto), e utilizzano i territori percorsi: stagionalmente (transumanza), ciclicamente (pastorizia seminomade) o semplicemente "itinerante" (pastorizia nomade), per sfruttare fino in fondo tutte le possibilità di pascolo ivi localizzate.

Anche presso questi popoli ci sono meccanismi culturali autogiustificativi e discolpanti del proprio comportamento nei confronti della natura, che fanno sì che essi vengano ritualmente attivati (medianti sacrifici et alia), allo scopo di rimanere, sia pure idealmente e, quindi, culturalmente, in armonia con l'ambiente e con il mondo animale e vegetale, che dà loro modo di sopravvivere.

In conclusione

I tre "tradizionali" approcci dei popoli "altri" all'ambiente ci mostrano un rapporto e un'interazione che non è mai di totale sfruttamento, nel concreto e idealmente. Nei confronti della natura non esiste una mentalità, un atteggiamento che è sempre e solo di competizione, di rapina, di mero sfruttamento.

Se da una parte si acquisiscono i prodotti del sottobosco, del bosco, delle steppe semi-desertiche e del deserto - sabbioso, roccioso, ghiacciato - (animali, vegetali), dall'altra si raccolgono i prodotti della coltivazione e dell'allevamento.

Nel primo caso la relazione con la natura è di rispetto, sia concreto, che "ideale", mentre negli altri due esiste una qualche discrasia tra l'agire concreto (negativo) e ideale (positivo). Il rispetto è solamente ideale.

Il Lanternari dedicò un interessante e corposo studio alle feste cosiddette di Capodanno presso i popoli cacciatori, pastori e coltivatori. Esse mostrano chiaramente quanti e quali siano, e in quali occasioni vengano attivati, gli strumenti culturali e rituali delle varie popolazioni. Ne discende che il rapporto uomo-natura e cultura-natura, spesso anche conflittuale, trova sempre una sua catartica armonizzazione, grazie alla ricomposizione di ogni "pedina" nell'ampio alveo della tradizione e della cultura (LANTERNARI V. 1976 (1959), La grande festa. Vita rituale e sistemi di produzione nelle società tradizionali, Bari: Dedalo Libri).

Da: "UOMINI, GENTI E CULTURE DEL "VILLAGGIO GLOBALE". UNA LETTURA ANTROPOLOGICA DELL'AMBIENTE". La versione integrale è reperibile su: 

https://www.researchgate.net/publication/344854777_UOMINI_GENTI_E_CULTURE_DEL_VILLAGGIO_GLOBALE_UNA_LETTURA_ANTROPOLOGICA_DELL'AMBIENTE?_sg%5B0%5D=xR_sAXkpyLdirfcqO6kf7f3nXVsykH5ROp2O9QZN8NVmOjn-QI9NI0Gg7AZ5GtTiufZ-ybIuumZ0HYsvjDEGyGmb404NF5V_NxNsRzsq.IldbcG9wxP3qd4cF3TuI8CnrYV_HYMSb2dPpfO8inwcALgg2StziIG1diiMs1KQHIWQuy6v_9UFymrP9-b3hgQ

61 personaggi, oltre ad una spedizione antropologica intercontinentale, svoltasi tra America del Nord e Asia a cavallo tra il secolo XIX e XX, figurano nella mia trilogia: LE GRANDI AVVENTURE DELL’ANTROPOLOGIA (Antropologi culturali, sociali, fisici, applicati, etnologi, etnografi, etnomusicologi, etnostorici)

E-Books


Versioni cartacee

PAGINA AUTORE ITALIA

PAGINA AUTORE USA



 




venerdì 21 gennaio 2022

8. A PROPOSITO DELLA FOTOGRAFIA (MA ANCHE DI CINEPRESE 8 E SUPER 8 MM, E DI TELECAMERE)

 

"Vedute d'Italia, Ariccia vicino Albano, nei dintorni di Roma", lastra di albumina, foto Ernest Eléonor Pierre Lamy, ca.1861 - 1878, Rijksmuseum, Amsterdam

A cavallo tra gli anni ’1970 e ’1980, le ricerche effettuate tra Africa orientale, nord-orientale, America e Artico avevano consentito di raccogliere una ricca messe di foto, che ritenevo per la maggior parte belle ed interessanti. Tanto da desiderare di metterle a disposizione del pubblico in un libro fotografico, che avrebbe spaziato dalla natura (ambiente, animali), all’etno-antropologia (“usi e costumi” dei popoli). Fotografie realizzate sin dal 1975, con quella che, all’epoca, forse costituiva la migliore attrezzatura in circolazione. Tanto che ci fu chi la definì la Rolls Royce delle macchine fotografiche, poiché faceva concorrenza alla Hasselblad, che con la missione Apollo era stata portata persino sulla Luna, ma le cui caratteristiche tecniche erano decisamente diverse. Sto parlando della Nikon F, con diversi accessori, tra cui un potente teleobiettivo da 300 mm. Dove caricavo esclusivamente rollini di diapositive Kodak Ektachrome 35 mm, da 64 a 400 ISO. Del resto molte mie foto già corredavano, integrandoli, gli articoli che andavo via via pubblicando su diverse riviste. Inoltre da “fotografo semiprofessionista” avevo venduto foto (Italia meridionale, Grecia, Stati Uniti, Messico) all’Enciclopedia della Curcio: La Grande Avventura dell’Archeologia (1980) e a Natura Oggi, la rivista della Rizzoli, da decenni scomparsa.
Le immagini fanno parte, assieme ai disegni, alle registrazioni sonore, ai diari, ai quaderni di ricerca e ai questionari, dell’indispensabile documentazione, che ogni buon antropologo raccoglie sul terreno. Inoltre non a caso negli anni ‘1980 ho fatto anche parte della Society for the Anthropology of Visual Communication di Washington. Del resto in tutti i miei “racconti”, sia articoli, che libri, ho sempre ritenuto essenziale integrare il più possibile i testi con le immagini.

Quella mia antica idea di realizzare un "book" fotografico presto si sarebbe dovuta scontrare con la dura realtà del mercato editoriale, anche a quei tempi particolarmente difficile, certo non come oggi... Sarei stato infatti caldamente sconsigliato dal farlo, nel corso di una lunga conversazione notturna, avuta casualmente con una famosa editrice siciliana, nel corridoio del vagone cuccetta del rapido, che dal nord mi riportava a Roma. 

Solo nel 2020 pubblicherò su Amazon il libro fotografico bilingue (E-Book e cartaceo): Immagini dall’Egitto. Images from Egypt. Companion book di: Viaggi in Egitto 1980-2009. Crociera aerea e fluviale sul Nilo; ai confini con il Sudan, alla ricerca di Berenice Trogloditica e della “carovaniera degli 11 giorni”; nel Sinai. In tutto 278 immagini, di cui 277 a colori. Foto riprese, nell’arco di quasi trent’anni, sulle due sponde di el-Bahr, il Nilo, e sulla costa del Mar Rosso, che arricchiscono e, in qualche caso, completano il ricco apparato fotografico già presente nei Viaggi in Egitto.

https://www.amazon.it/dp/B08DCZ7D9F ;
https://www.amazon.it/IMMAGINI-DALLEGITTO-IMAGES-EGYPT-COMPANION/dp/B08DGCFSDH/ref=tmm_pap_swatch_0?_encoding=UTF8&qid=&sr=


IL PONTE DI ARICCIA (RM)

La Comet III della Bencini, la mia prima macchina fotografica (1960)

  

Non potevo non incominciare questo post sulla fotografia, da me largamente utilizzata nel corso dei miei viaggi e delle ricerche antropologiche sul campo effettuate tra Vecchio e Nuovo Mondo, ricordando come ho iniziato ad usare una macchina fotografica. 

LE PRIME MACCHINE FOTOGRAFICHE, ANNI ‘1960


Alla fine degli anni ‘1950 rimasi molto turbato nell'apprendere dal giornale come un ragazzino si fosse lasciato andare nel baratro, dal ponte di Ariccia. Avvenimento che mi sconvolse moltissimo, anche perché aveva più o meno la mia età.
[Solo nel 2000 verranno apposte lungo tutto il ponte delle barriere in tensostruttura. A quanto pare non troppo funzionanti, se ancora nell’ottobre del 2021 si sono manifestati due suicidi (un ragazzo di 18 anni e uno psicoterapeuta di 43: Il Messaggero, Enrico Valentini, “Ponte di Ariccia, la triste conta dei suicidi. Le reti non bastano più, Trovato il corpo senza vita di un medico, pochi giorni fa si era gettato un 18enne”, 27 Ottobre 2021, Web Page 18.1.2022]

I cronisti, cercando di arricchire i loro servizi giornalistici, ricordarono come, nonostante l'età, il ragazzino fosse un appassionato di fotografia e l’apparecchio fotografico da lui utilizzato una Comet III Bencini. Pubblicarono anche una foto della sua macchina, che  mi apparve subito bella, anche per il suo corpo in lucente alluminio. Oltre tutto la sua verticalità la faceva assomigliare ad una cinepresa. Scopro oggi che aveva anche diverse ed interessanti caratteristiche. Pertanto, dopo aver messo da parte il denaro sufficiente per comprarla, nel 1960 avrò anch'io una Comet, quella riportata nelle tre immagini. Farò le prime foto a Fiumicino e a Porto Santo Stefano (Argentario), dove sono ritratto con i calzoncini corti, come si usava all’epoca. Era maneggevolissima, si potevano scattare 16 foto, la pellicola era di formato 127.

Anni dopo, grazie all'avvento della popolare ed economica Kodak Instamatic, mi sarei arreso alla comodità e rapidità del caricare il film (oggi diremmo con la facilità di un “click”), servendomi di una cartuccia di plastica. Realizzerò foto quadrate e a colori. In quel periodo (anni ‘1960) avrei anche effettuato le mie prime riprese "cinematografiche", utilizzando la 8 mm Kodak Brownie, mentre avrei sperimentato la Polaroid Land Camera Swinger 20, che non necessitava di camere oscure, perché le 8 piccole foto stampate (5,4 x 7,3 cm) si sviluppavano da sole. All’epoca un’autentica rivoluzione…

KENYA 1976. UTILIZZAZIONE DI UNA CINEPRESA SUPER 8 MM

Negli anni ‘1970 avrei acquisito una cinepresa Canon 518 Auto Zoom Super8, che utilizzerò anche durante la mia prima ricerca africana in Kenya nel 1976. Molto ingenuamente, pensavo di realizzare qualche piccolo documentario per la televisione. Così, oltre a tutta l’attrezzatura fotografica e di registrazione sonora, porterò con me anche un pesante treppiede d'alluminio. 

Le riprese furono poche. In pratica si limitarono a solamente due occasioni. La prima fu la visita al National Museum of Kenya e al suo straordinario serpentario, a Nairobi. Scortato e accompagnato, vista la mole e la pesantezza dell’attrezzatura di allora, ma anche  a causa di sempre possibili problemi di criminalità, da due inservienti africani del Flora Hostel, dove ero alloggiato: così aveva voluto la Madre Superiora...

La seconda occasione si manifesterà più tardi. Quando nel corso della mia ricerca nella cittadina multietnica di Isiolo, a nord del Monte Kenya, nel settentrione del paese, a bordo di una vecchia Land Rover parzialmente scoperta, guidata da un Turkana, un ex cacciatore di leoni, con uno dei  miei due assistenti di ricerca mi recherò nella Samburu Game Reserve. Allora il turismo di massa era solo nascente. In pratica durante tutto il corso di quella lunghissima e straordinaria giornata non vedrò l’ombra di un turista. Salvo quando andrò a mangiare nel Samburu Lodge. Le riprese cinematografiche saranno comunque varie (panorama, rinoceronte, elefanti, scimmie, gazzelle, giraffe e, incredibilmente, addirittura un leopardo, di giorno...). In quell'occasione scoprirò che era meglio dedicarmi totalmente alla fotografia. Poiché non era possibile, come dire, dividersi. Le “scoperte”, che farò nel corso di quella mia “iniziazione antropologica”, saranno in effetti due. A Roma avevo infatti cominciato a studiare il Kiswahili, la lingua franca dell’Africa orientale (e non solo), un vero e proprio passe-partout intertribale. Facendo esercizi su esercizi e cercando di imparare a memoria il glossario. Non avendo le parole alcunché in comune con quelle delle lingue europee. Così, anche in questo caso decisi che mi sarei limitato a fare l’antropologo. Lasciando l’apprendimento delle lingue ai glottologi. Perché, come molti altri colleghi, da allora in poi mi sarei servito del preziosissimo ausilio di interpreti ed assistenti africani, appartenenti anche a tribù diverse… 

LE RICERCHE ANTROPOLOGICHE E LA MIA PRIMA MACCHINA FOTOGRAFICA REFLEX PROFESSIONALE: NIKON, 1975-1987


Nel 1975 ecco arrivare la mia prima macchina "importante”, la Nikon F Photomic; obiettivo 50 mm Nikkor H.C 1:2; grandangolare Nikkor 28 mm, 1:28; teleobiettivo da 300 mm. Nikkor-H Auto, 1: 4,5; filtri skylight; diapositive Kodak Ektachrome. In quello stesso anno l’utilizzai nel corso dei miei viaggi e soggiorni a Parigi, in Grecia e nelle isole Tremiti. Era una fotocamera così importante (e costosa), che l'avrei assicurata in tutto il mondo (salvo Unione Sovietica, Cina e Corea del Nord), e per numerosi anni, con una società britannica,.al notevole costo di centomila lire l'anno. Nel caso di  un'eventuale perdita, danneggiamento o furto, era l'unica compagnia che, all'epoca, poteva rimborsarmi l'intero costo di una nuova fotocamera Nikon.    

Come macchina ausiliaria, in caso di anomalie della Nikon, alcuni anni dopo mi sarei servito anche di una Asahi Pentax, con un eccellente zoom della Tamron.  

KENYA Nel 1976 la Nikon sarà indispensabile durante la mia prima ricerca antropologica sul campo nel Kenya settentrionale.

MESSICO Nel 1978 sarà con me durante la mia ricerca tra gli indios Huave del piccolo villaggio di Santa Maria del Mar, nell’Istmo di Tehuantepec, Oaxaca, Messico.


SUDAN, 1979


Nikon, Polaroid EE100, Agfa pocket 2008.
Khartoum, Festa Nazionale Sudanese, Sergio Bonelli, Tex Willer, Gerardo Bamonte, Sahara, Hoggar, Fortini Legione Straniera, albero del Ténére, Chad, Fort Lamy, Ambasciatore Filippo Anfuso

Nel 1979, quando effettuai la mia prima ricerca nella cittadina multietnica di Malakal, nella Provincia del Nilo Superiore, nel Sudan meridionale, ad 850 km a sud di Khartoum, oltre alla Nikon mi sarei avvalso di altre due macchine fotografiche. 

La prima era la Polaroid EE100, con le sue foto colori (sempre in numero di 8), da consegnare alle persone da me ritratte. 

Recandomi in un paese islamico, oltre tutto sottoposto ad un regime dittatoriale (quello di Ja'far al-Nimeyri), dove  i divieti di fotografia erano numerosi la seconda era l’Agfa pocket 2008. Una macchina sottile da utilizzare, se necessario, senza dare troppo nell'occhio. In realtà userò solo un paio di rollini, per scattare foto in bianco e nero e a colori del tutto normali, certamente non alla "James Bond"

Fotografando una parata popolare della Festa Nazionale Sudanese (Indipendenza) a Khartoum. 

Festa Nazionale Sudanese, Khartoum, un momento della parata popolare

Poi in occasione di un party "molto informale", tenutosi nella frescura (tanto ricercata, vista la temperatura di oltre 40° all’ombra, di quel mese di febbraio…) dei giardini della nostra Ambasciata a Khartoum (e, visti i costumi da bagno, probabilmente accanto ad una piscina, di cui però non ho il ricordo...). Dove, oltre all'Ambasciatore Filippo Anfuso, incontrerò l’amico  Gerardo Bamonte, un antropologo "americanista", anche lui appena arrivato in Sudan, ma per via terra… Mi spiegherà che, assieme ad un suo amico paletnologo, presente anche lui al party, come del resto aveva fatto in precedenza (ricordo, ad esempio, il viaggio in India e, se non sbaglio, anche in Amazzonia), questa volta aveva accompagnato in jeep Sergio Bonelli, l’autore di Tex Willer, già rientrato a Roma. Perché Bonelli desiderava vedere i fortini della Legione Straniera. Così da Algeri avevano attraversato tutto il Sahara, imbattendosi lungo la pista anche in diverse roulotte (sic). Dopo aver raggiunto l'Hoggar ed aver oltrepassato il confine con il Mali, era "passato" per il famoso e solitario albero del deserto del Ténéré. In realtà una sua "controfigura" metallica. Perché, come sappiamo, l'acacia fu investita e abbattuta da un camionista ubriaco nel 1973.. Poi, viaggiando verso est in direzione del Sudan, nelle vicinanze dell’aeroporto di Fort Lamy, nel Chad erano riusciti fortunosamente a scampare ai colpi di mitragliatrice degli aerei dei ribelli, che stavano martellando le piste. 

Da sinistra: l'Ambasciatore Anfuso, il paletnologo, il compianto amico Gerardo Bamonte, infine il sottoscritto, prima della "cura dimagrante tropicale".

Un incontro, il nostro, del tutto inaspettato e indubbiamente carino, che ci vedeva insieme in un luogo insolito. E non ci eravamo incontrati in precedenza, perché loro stavano all'Hilton Hotel (leggermente decentrato rispetto al centro cittadino), mentre io avevo la camera all'Arak. Inoltre ero arrivato appena un paio di giorni prima a Khartoum, a bordo di un DC8 dell’Alitalia,  E dire che avevo lasciato Roma con la neve e per questo il decollo dell’aereo   era stato più volte rimandato. Tanto da temere che non sarei più partito per il Sudan, con tutte le conseguenze che ciò avrebbe potuto provocare!  Solo intorno alle 3 di notte arrivò la telefonata tanto attesa. Poiché, Inch'Allah!, annunciava la partenza dell'aereo per l'Africa… 

Nell’estate del 1980 utilizzerò la Nikon durante la mia seconda ricerca sul campo nel Kenya nord-occidentale (Elmolo del lago Turkana), mentre nel dicembre 1980-gennaio 1981 l'avrò a Malakal, nel Sud Sudan. 

Nikon che userò ancora nelle SHETLAND E ORCADI  (1982), nell'ARTICO CANADESE (1983) tra gli Inuit (eschimesi) e a  TERRANOVA E SAINT PIERRE ET MIQUELON (1987)


ISOLE SVALBARD 1994, ISOLE FAROER 1995, ISOLE EBRIDI ESTERNE (e St KILDA) 1997, ISLANDA E GROENLANDIA 1998: CANON EOS 500

Nel 1994 la Canon EOS 500 (zoom 35-80 1:4-5,6; zoom 100-300 mm ultrasonic 1:4,5.5,6; diapositive Kodak Ektachrome) sostituirà la vecchia e pesantissima Nikon. L’utilizzerò sia alle Svalbard, che alcuni anni dopo in Islanda.  In entrambe le occasioni avrei fatto anche delle registrazioni televisive con la mia videocamera Explorer della Philips VHS c VKR 6840 (acquisita all'inizio degli anni ‘1990). Alla quale, su prezioso suggerimento della dirigente della Philips di Roma, aggiunsi un ulteriore, potente teleobiettivo.  Le riprese nell’arcipelago artico norvegese furono, in realtà, poche, mentre quelle in Islanda, grazie al fatto che in quel viaggio di ricerca non ero solo, furono sufficientemente lunghe. In grado di arricchire ed integrare la documentazione raccolta nella Terra del Ghiaccio e del Fuoco.

Sull'Islanda il mio libro Amazon (E-Book e versione cartacea, a colori e in bianco e nero:

https://www.amazon.it/Franco-Pelliccioni/e/B01MRUJWH1/ref=dp_byline_cont_pop_book_1

Ai Confini d’Europa: Viaggio-Ricerca nell’Islanda dei Vulcani, dei Ghiacciai, delle Saghe, del Mondo Vichingo

                                       

 L’AVVENTO DEL DIGITALE, 2001

Nel 2001 ecco la prima macchina digitale, una Fuji (FinePix S 304; 3,2 Mega Picxels; Zoom ottico 6x, corrispondente a un 38-228 mm). L’userò per la prima volta nel corso del mio primo viaggio in Tunisia. Con la Canon che diventava la macchina ausiliaria, ma era estremamente utile per gli scatti rapidi - mercati, persone, bambini, animali -, per i grandi spazi, grazie al suo grandangolare, e per le foto a distanza, con il suo 300 mm). 

Una macchina straordinaria, quella digitale, che consentiva di conoscere immediatamente il risultato di ciascuna fotografia e di poter scattare foto in numero pressoché illimitato  Utilizzando le minuscole schede di memoria XD) con un ingombro decisamente inesistente. Rispetto al peso e alle dimensioni delle svariate decine di rollini di diapositive (in media ciascuna consentiva 36 scatti, ma potevano essere anche di più...), che mi sono sempre portato appresso per il mondo. Una straordinaria rivoluzione, se si considera anche il fatto che, specialmente ai tropici, i rollini delle diapositive nel lungo termine potevano subire inconvenienti dovuti a calore e umidità

Così che nel 1980 sviluppai subito le diapositive scattate in Kenya (lago Turkana) grazie alla Kodak (East Africa), al mio rientro a Nairobi.  Ma la mia nuova Fuji del 2001 aveva un problema non da poco. Abituato com'ero alla Nikon, ma soprattutto alla Canon,  e ai suoi due zoom ultrasonici, che consentivano scatti fulminei. Infatti con la mia prima fotocamera digitale dovevo calcolare con la maggiore esattezza possibile la corretta inquadratura dei soggetti che stavo riprendendo: in base al movimento di persone, animali, o del veicolo dove mi trovavo. Perché c’era sempre un non indifferente iato  tra l’istante dello scatto e l’inquadratura finale! .

La prima volta che vidi una piccola macchina digitale fu nel 1997. L'aveva l’amministratore della Base Dirigibile Italia nella Baia del Re, nelle artiche isole Svalbard, che avevamo da poco inaugurato. Mi disse che con quella fotocamera poteva mandare la documentazione fotografica direttamente al CNR a Roma, allegandola ad una E-Mail.

Ricordo ancora come, poco dopo l'acquisto della Fuji, parlando con il direttore artistico (laboratorio fotografico) del mio giornale e accennando alle sue caratteristiche, nonché al notevole costo, mi disse che la sua macchina, che era solo un paio d’anni più vecchia, non solo aveva peculiarità decisamente inferiori alla mia fotocamera, ma era anche costata molto, ma molto di più. Non potevo, quindi, lamentarmi!

Le mie altre macchine digitali acquisite nel corso del tempo:

Fuji FinePix S 304 6 X Optical Zoom, 3,2 Megapixel, 1:8,2; 

Fuji FinePix A 850, zoom ottico 3 X, 8,1 megapixel, 1:8.

Fuji FinePix A 900, 9 megapixel, zoom ottico 4 X 

Fuji FinePix S1500, Bridge, 10 megapixels, caratterizzata da un potente zoom: 12 X (33-396 mm). L'utilizzerò, ad esempio, nel corso del mio viaggio in Giordania.

Infine un'altra Nikon, ma digitale, che si tiene in un taschino! La Coolpix S 3200, Obiettivo Nikkor 6X Wide Optical Zoom VR, 26-156 mm , 4.6-27.6 mm, 1:3,5-6,5; 16,8 Megapixels  

TELECAMERA DIGITALE

Samsung  camcorder Varioplan 65 X Intelli-Zoom f=2,1-109.2 mm, F-1,8. 



Nell'innevata Foresta Pietrificata dell'Arizona scatto una foto con la Nikon e il tele da 300 mm, 1980

  

Riguardo alle foto subacquee: 

nel Mar Rosso meridionale, ai confini con Sudan, userò l'Amphibia underwater 35 mm motorizzata UW 303 della Vivitar e diapositive Kodak Ektachrome. Mentre nel Mar Rosso centrale avrò a disposizione la macchina fotografica digitale Fuji FinePix A 900, 9 megapixel, zoom ottico 4 X e custodia subacquea WP-FXA800, 1: 2,9;