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domenica 30 giugno 2024

160. HEIMAEY, LA "CAPRI DEL NORD", NELL’ARCIPELAGO DELLE VESTMANNAEYJAR, A SUD OVEST DELL’ISLANDA, E L’IMPROVVISA, DRAMMATICA, ERUZIONE DI UN NUOVO VULCANO: L'ELDFELL DA: AI CONFINI D’EUROPA. VIAGGIO-RICERCA NELL’ISLANDA DEI VULCANI, DEI GHIACCIAI, DELLE SAGHE, DEL MONDO VICHINGO

 

 Heimaey con i suoi due vulcani: a sinistra l’Eldfell [il nuovo vulcano], a destra l’Helgafell (© Franco Pelliccioni)  


L’ULTIMA COMUNITÀ MARITTIMA INTERESSATA DAL MIO PROGRAMMA NORDATLANTICO

 Nella "Capri del Nord", come è soprannominata Heimaey (l'«isola-casa»), nell’arcipelago delle Vestmannaeyjar, per le sue grotte marine e i faraglioni, ho effettuato l'ultima ricerca antropologica prevista dal mio Programma sulle Comunità Marittime dell’Atlantico del Nord. 

Una scelta dettata da una serie di fattori storico-geografici e culturali di rilievo, tra i quali: la trainante economia basata sulla pesca, la relativa lontananza dell'isola dalla costa islandese, la "diversa" e ben radicata cultura dei suoi abitanti.

 Ciò che mi affascinò maggiormente di Heimaey, però, fu la storia di un evento imprevisto e catastrofico, e di come si riuscì, a livello individuale e collettivo, a fronteggiarlo, sia nel momento della massima emergenza, che in seguito. 

E, infine, di come oggi gli isolani siano sempre pronti, quasi con "animo leggero", ad una sempre possibile iterazione dello stesso terribile fenomeno.

UN’IMPROVVISA ERUZIONE VULCANICA IN GRADO DI ANNICHILIRE L’ISOLA E I SUOI ABITANTI 

 Nel cuore della notte di martedì 23 gennaio 1973, ore 1,55, improvvisamente iniziava un'eruzione da una fessura posta ad est dell'isola, senza segni premonitori, se si eccettuano alcune leggere scosse di terremoto cominciate alle dieci di quella sera. 

Una serie di fortunate circostanze, accomunate a know how, determinazione e dosi elefantesche di sang froid sparse a piene mani, riuscirono ad impedire che si verificasse un'immane tragedia

Innanzitutto, grazie al persistere di quello che amo definire "tempo islandico", cioè la trilogia: gelo, vento forte, pioggia battente.

In quelle ore tale aggettivazione sarebbe calzata a pennello: pioggia fortissima con raffiche di vento da sud-est forza 12. Costringendo, in quella notte da lupi, a far restare in porto tutta la flotta. 

Questo fatto, unitamente ad altri, che verranno in seguito individuati, consentì che il "fuoco della terra" non provocasse né morti, né feriti. 

Non solo… La cittadina fu salvata e migliorò perfino l'infrastruttura naturale del porto. Ma andiamo subito ai fatti.

Già alle 2,30 il primo peschereccio pieno di sfollati lasciava l'isola. Tutte le altre imbarcazioni allertate e pronte a seguire, come una corrente. 

Solo poco prima delle 2 c'era stata l'allarmata telefonata al posto di polizia annunciante l'eruzione in prossimità della Kirkjubær.

Un immediato controllo verificava la presenza di due lingue di lava, che partivano dall'ovest dell'Helgafell, il vulcano dell'isola (226 m) che mai, nei secoli, aveva dato segni di irrequietezza. 

Contrariamente a quanto si era invece verificato dieci anni prima, con un'eruzione vulcanica sottomarina, che in pochi anni portò alla creazione dell'isola di Surtsey.

 L'eruzione aveva preso il via da quello che è diventato il vulcano gemello dell'Eldfell (la "montagna di fuoco").

In meno di due ore, vigili del fuoco e polizia fecero scendere la popolazione in strada, radunando tutti al porto con poche cose.

Immediatamente si prese la decisione di evacuare i suoi 5300 abitanti, e al più presto. Poiché i fiumi di lava, che correvano in due direzioni opposte, potevano bloccare contemporaneamente l'ingresso al porto e distruggere la pista aeroportuale

In poco tempo circa 300 persone (per lo più vecchi e malati) furono evacuati a Reykjavík, grazie ad un ponte aereo operato dalle linee aeree islandesi e dalla NATO

Ad Heimaey, alla fine, rimasero solo due-trecento persone per l'emergenza. Enorme fu l'assistenza e l'aiuto portato dalla comunità internazionale, in particolare dagli stati scandinavi.

Alcuni numeri che quantificano ciò che accadde.

In cinque mesi e dieci giorni l'eruzione produsse 250 milioni di m3 di lava e cenere. Il nuovo vulcano raggiunse un'altezza di 225 m

Anche le dimensioni dell’isola si accrebbero di un buon 15%, passando dai 12 ai 14,5 Kmq. La solidificazione della lava di Kirkjubaerhaurn contribuì inaspettatamente a migliorare le caratteristiche del porto, restringendo l'imboccatura della baia, ora ben protetta dalle intemperanze oceaniche. 

Da terra e utilizzando i cannoni d'acqua di due navi, si pomparono 5,5 milioni di tonnellate d'acqua di mare per raffreddare la lava, allo scopo di rallentare o bloccare, sia pure in parte, la sua catastrofica corsa verso il porto e la città. 

La massa di lava raffreddata agì efficacemente da diga contro l'avanzare di quella incandescente (30 m al giorno). Una misura adottata per la prima volta, che si dimostrò risolutiva.

L'isola, costantemente nascosta da un'immensa nuvola di vapore, si salvò.

Come si salvò il porto, tra i più importanti dell'Islanda

Le correnti di lava ne lambirono solo il lato orientale. Evitando quasi completamente le abitazioni, che furono distrutte dalla cenere, che tutto ricoprì e bruciò. Ne caddero 1,5 milioni di tonnellate! Il suo peso fece crollare la maggior parte degli edifici. In totale 360 case furono distrutte, 400 danneggiate, 400 rimasero intatte. 

La chiesa, dove al culmine dell'eruzione vulcanica si celebrò una messa, fu miracolosamente risparmiata

 Immagine dell’eruzione dell’Eldfell alle spalle della chiesa (Landakirkja) risparmiata dal vulcano. Foto esposta nel Museo Folk di Heimaey (© Franco Pelliccioni)  


Sulla città caddero complessivamente 1,5 milioni di tonnellate di cenere. Subito dopo la fine dell'eruzione, si scavò molto per riportare alla luce le case sepolte sotto metri e metri di cenere, come a Pompei...

 Nel 1975 la maggior parte della cenere era già stata tolta. Venne usata per costruire strade, allargare la pista aeroportuale e per le fondamenta delle case, che si ricostruirono a nord-ovest, dalla parte opposta dell'isola.

Due terzi degli abitanti ritornarono ad Heimaey

Il principale danno arrecato dall'eruzione fu costituito proprio dal mancato ritorno degli isolani, per lo più vecchi e ammalati, ma anche giovani, che preferirono restare nella Mainland.

Anche in quella tremenda occasione gli islandesi sono riusciti a ricavare il buono da quanto era successo. 

Realizzando, tra il 1976 e il 1988, un sistema termodinamico per riscaldare le case che utilizzava, incredibile a dirsi, la… lava ancora bollente come fonte energetica. Poiché riscaldava l'acqua immettendola in un sistema di termoriscaldamento centrale, che riforniva tutte le case.

Ora che la lava si è raffreddata il sistema funziona grazie all'energia elettrica.

DA: AI CONFINI D’EUROPA. VIAGGIO-RICERCA NELL’ISLANDA DEI VULCANI, DEI GHIACCIAI, DELLE SAGHE, DEL MONDO VICHINGO

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159. PAGINE DIMENTICATE DELLA STORIA: QUANDO A GRAN CANARIA, FUERTEVENTURA, LANZAROTE E TENERIFE, NELLE CANARIE, SI CACCIAVANO LE BALENE PER SFAMARE GLI ISOLANI. CRONOLOGIA DI UN FALLIMENTO VENTENNALE (1778-1803). DA: BALENE E BALENIERI, TRA NORD ATLANTICO, PACIFICO SETTENTRIONALE, MAR GLACIALE ARTICO. VAGABONDAGGI ALLA RICERCA DELLE TESTIMONIANZE DELL’ERA DELLA CACCIA ALLE BALENE

 

La “Fortezza della Fame”, cioè il Castillo de San José. Edificato ad Arrecife (Lanzarote) tra il 1776 e il 1779 per difendere la città dagli attacchi dei pirati, ma anche per dare lavoro agli isolani, in tempo di carestia ed estrema povertà (© Franco Pelliccioni) 

 La Real Sociedad Económica de Amigos del País de Gran Canaria nel 1778 decide di cacciare le balene, considerate "una fonte di ricchezza”. I primi rapporti indicano che tra aprile e giugno i cetacei sono numerosi nelle vicinanze di Arguineguín, nel sud di Gran Canaria, dove alcune grandi balene, arpionate e ferite, riescono comunque a fuggire.

Il 1778 per l’Impero spagnolo è un anno fondamentale. Perché cessa finalmente il monopolio gestito fin dal 1717 da Cadice per le merci in entrata e in uscita.

Consentendo a tredici porti, tra cui quello di Santa Cruz di Tenerife, di commerciare direttamente con l'America.  Non a caso nel corso dell’anno giunge nell’isola di Tenerife una nave nordamericana. L’ha voluta il Comandante Generale, per addestrare gli isolani alla caccia. In seguito, poiché la macellazione delle balene deve essere effettuata nella desertica penisola di Jandía, a sud di Fuerteventura, dove numerosi sono i cetacei, la nave farà rotta su Fuerteventura.

 Nel 1782 José de Eguiluz, Corregidor di Gran Canaria, in una lettera indirizzata al conte di Peñaflorida, che vive nella cittadina basca di Guipúzcoa, descrive l'abbondanza di balene nei mari delle Canarie e chiede l’invio di balenieri esperti.

Nel 1784 il Comandante Generale Miguel de la Grúa Talamanca de Carini y Branciforte, assieme a Bernardo Cólogan Valois, mercante di vino di Puerto de la Cruz (Tenerife), fonda una compagnia baleniera, con sede a Tenerife e Gran Canaria.

Il Viceré Miguel de la Grúa Talamanca, dal 1784 al 1789 Comandante Generale delle Canarie e dal 1794 al 1798 Viceré della Nuova Spagna (di José María Vázquez Museo Nacional de Historia, Mexico City) 

Nel 1786 Branciforte decide che la caccia deve lasciare Gran Canaria, per spostarsi a Tenerife e nell’isola di La Gomera.

 L’anno dopo (1787) a Nantucket è acquistato un brigantino baleniere, assieme ad attrezzi, arpioni, barche per abbordare i cetacei, recipienti e barili “per immagazzinare il grasso oltre a caldaie di lastre di rame per fonderlo”. Il problema principale, però, è sempre il medesimo: la totale mancanza di know how per cacciare balene, unita all’assenza di uomini esperti. Perché le Canarie [spagnole], al contrario delle Azzorre [portoghesi], i cui isolani hanno con profitto imparato il mestiere dai baschi, non possiedono in merito alcuna nozione.

Dal 1795 l'armatore Mújica, su raccomandazione del Consiglio, ottiene il privilegio reale di cacciare balene per sei anni. Individuando l'area di La Isleta, nel nord-est di Gran Canaria, per la stazione a terra.

 Nel 1796 nelle acque davanti ad Arrecife (Lanzarote) un branco di più di 30 capodogli spiaggiati fa la felicità dei cittadini.

Nel 1803, Mújica fa costruire quattro baleniere ed effettua tre campagne di pesca, con gli usuali scarsissimi risultati: pochi cetacei uccisi, molte balene ferite e fuggite, scarsità di finanziamenti pubblici e privati.

 Nessuno dei progetti portati avanti nel corso di un ventennio ha quindi avuto successo. Perché quasi subito stroncati da interessi e - come si direbbe oggi in politichese - “sensibilità” contrastanti. Alle quali si sono aggiunte difficoltà tecniche, finanziarie e, soprattutto, l’insormontabile montagna dell'improvvisazione!

 La nave statunitense acquisita nel 1787, dopo essere stata utilizzata per trasportare truppe e merci, sarà catturata dai francesi nel 1814.


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sabato 29 giugno 2024

158. ADATTAMENTI CULTURALI (TECNOLOGICI, ECONOMICI, DEMOGRAFICI) E FISIOLOGICI ALL’ARTICO: UNA PREMESSA AI POPOLI CIRCUMPOLARI. Da: QUI BASE ARTICA DIRIGIBILE ITALIA, SVALBARD. DALLA TERRA DEGLI ORSI POLARI UNA RASSEGNA E UN INVENTARIO CULTURALE DEI POPOLI DEL GRANDE NORD

 

“Unangan [Aleuta] su un “quajaq”  [in realtà è una baidarka, simile ai kayak degli Inuit] al largo dell’Isola di Saint Paul”, Alaska (Louis Choris, artista ucraino, membro della nave russa, che nel 1815-18 effettuò un’esplorazione del Nord America)

I popoli che vivono nell'Artico, a parte le singole differenziazioni, i particolari ritmi di vita e gli "unici" percorsi esistenziali, presentano di sfondo una sorprendente omogeneità. In toto possiamo, quindi, parlare di un ben definito cluster culturale, quello dei popoli artici, appunto.

Il particolare ambiente, le sue specifiche caratteristiche di rigidità geo-climatica, fanno sì che essi abbiano adattato le proprie società e culture all'ambiente, trovando soluzioni tecnologiche, modi di sussistenza, economie, dimore e costumi tra loro paragonabili.

[La cultura circumpolare]

Tanto che il Sami [Lappone] Hætta parla di "cultura circumpolare". Sembra che questa appaia come una sorta di "determinismo ambientale", pressoché la sola a sfuggire ad un’antropogeografia fin de siècle e superata da fatti e verifiche sul campo.

La base di queste culture, ripeto, ha adottato, non solo sistemi ergologici e di sopravvivenza (basati su caccia, pesca, e in Eurasia, allevamento delle renne), ma anche meccanismi di controllo, che tendono a proteggere e a conservare l'unità e la coesione del gruppo, sia a livello famigliare, che collettivo.

Quindi coesione sociale e cooperazione economica, con distribuzione del cibo e del lavoro in misura egualitaria tra tutti.

[Controllo demografico]

E presenza coeva di tratti ed elementi culturali, che ad un osservatore esterno, quale può essere un occidentale, possono risultare particolari, "strani", o terribili, come tra gli Inuit (Eschimesi).

Quando, specialmente nel passato, ma ancora oggi, avveniva lo scambio o l'imprestito d'amicizia delle mogli (si è sempre teso a favorire la maggiore fertilità possibile, anche uscendo dal proprio modesto gruppo endogeno).

Gli eschimesi infatti accettavano che ogni uomo che viaggiasse solo venisse, non solo bene accolto nell'accampamento, ma che potesse avere relazioni sessuali con una donna del gruppo.

 Oppure l'infanticidio delle femmine, l'abbandono di vecchi e di malati, per non minare la sopravvivenza presente e futura dell'intera banda.

[Popoli paleo o neo siberiani]

 C'è ancora da aggiungere come, a parte i Sami, i Lapponi, ci troviamo di fronte, dall'Eurasia all'America, anche ad un'omogeneità razziale: popoli paleo o neo siberiani.

Ecco quindi che le famiglie linguistiche dei popoli boreali e circumartici, che abitano le immense distese a tundra o a taiga del Grande Nord, possono raggrupparsi in tre grandi entità: a) paleoasiatiche (Paleosiberiane: Ciukci, Coriachi, Iucaghiri); b) uralo-altaiche (Sami -Lapponi -, Samoiedi, Jacuti, Tungusi, e altri gruppi neo-siberiani); c) eschimesi (Inuit) e Aleute.

[I Vichinghi e il cambiamento climatico nell’Artico]

Le rigide condizioni climatiche dell'area circumpolare hanno inoltre impedito ai popoli bianchi e alla loro cultura massificante di penetrare a fondo nell'Artide. Ancora oggi! L'unico esempio storico che mi viene subito in mente è relativo ai due insediamenti Vichinghi nella Groenlandia meridionale, che non sarebbero sopravvissuti al brusco deteriorarsi del clima.

Anche perché si trovarono in improvvisa e violenta collisione con gli Inuit, che si erano portati giocoforza verso sud e, perciò, nello stesso territorio abitato dagli europei, con le drammatiche conseguenze che si possono immaginare!

[La Piccola Era Glaciale e l’Islanda]

Ricordo, ancora, come la popolazione della stessa Islanda durante la Piccola Era Glaciale (tra il 1400 e il 1850) si dimezzò.  

[Adattamenti fisiologici]

D'altra parte studi bio-antropologici ci rivelano che, come è avvenuto nel tempo per altri gruppi umani (per esempio tra alcuni popoli andini), si siano verificati adattamenti fisiologici dei popoli del ceppo mongoli alle condizioni artiche.

Accumulando depositi di grasso in quelle "parti del corpo che sono abitualmente esposte al freddo, come le guance, le palpebre, le mani e i piedi.

Tra i Lapponi, che sono di statura più bassa e più snelli, “le vene delle braccia e delle gambe scorrono vicinissime le une alle altre, in modo che il calore possa circolare rapidamente e facilmente dal sangue arterioso caldo al sangue venoso freddo".

[I Sami (Lapponi) e l’allevamento delle renne]

 Quest’ultimo popolo è quello che meglio ha resistito alla cultura occidentale. Unico, tra tutti i popoli artici, a modificare radicalmente, e da solo, nel XVI secolo, la base della propria cultura.

Passando da un'economia di caccia ad una incentrata sull'allevamento della renna.

 Lapponi (Sami), ca. 1900

Gli eschimesi [Inuit] costituiscono, invece, il popolo più conosciuto, anche dal grosso pubblico, mentre quelle meno studiate e note sono le etnie siberiane.

[L’aspetto demografico]

 Si impone a questo punto una breve panoramica etno-demografica dei popoli circumartici autoctoni.

Complessivamente la loro consistenza si aggira su oltre due milioni di individui.

Komi e Jacuti da soli assommano a oltre 1.000.000. Più piccoli sono gli altri popoli. Tutti insieme non arrivavano a toccare nel 1993 le 100.000 unità. Oggi sono invece circa 323.000. Ad essi vanno aggiunti 130.000 Inuit (Eschimesi) [Groenlandesi compresi], 87.000 Sami (Lapponi), 10-60.000 Kvens, 70.000 Careli.

 A queste cifre si dovrebbero ancora sommare anche quelle relative ai Popoli Indiani delle foreste settentrionali (ca. 390.000).

Se, infine, includiamo anche le popolazioni non autoctone, secondo l’AHDR (Arctic Human Development Report), la cifra per gli otto stati (Canada, Stati Uniti, Russia, Finlandia, Svezia, Norvegia, Islanda e Danimarca - Groenlandia) va raddoppiata, raggiungendo i 4.000.000 di individui.

[Il paragrafo 3.2 ("I popoli circumpolari") include 11 riferimenti bibliografici e 10 note]

Da: QUI BASE ARTICA DIRIGIBILE ITALIA, SVALBARD. DALLA TERRA DEGLI ORSI POLARI UNA RASSEGNA E UN INVENTARIO CULTURALE DEI POPOLI DEL GRANDE NORD

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venerdì 28 giugno 2024

157. GLI IMPRESSIONANTI FARAGLIONI DI STAC LEE, STAC AN ARMIN E BORERAY. DOVE PER SOPRAVVIVERE, RISCHIANDO OGNI VOLTA LA VITA, UOMINI (E DONNE) DI ST KILDA SI ARRAMPICAVANO PER CATTURARE UCCELLI MARINI E RACCOGLIERE UOVA. Da: NELL'ARCIPELAGO DEGLI “UOMINI-UCCELLO” DI ST KILDA. VITA E MORTE DI UNA REMOTA COMUNITÀ' SCOZZESE

 

 Lo Stac an Armin. lo "scoglio del guerriero": il più alto del Regno Unito (© Franco Pelliccioni) 

UNA COMUNITÀ' DI “UOMINI-UCCELLO”

Per tentare di descrivere l'intima essenza della comunità marittima di St Kilda ["un remoto pugno di isole, avanzi di un vulcano attivo 60 milioni di anni fa, in pieno Oceano Atlantico, difficile da raggiungere.  Oltre tutto, non è detto che vi si possa sempre sbarcare. A causa delle precarie condizioni meteo-marine e all'assenza di un sicuro, protetto ancoraggio, che spesso sconsigliano l'ormeggio nella Village Bay, nell'isola di Hirta"], dovrei impiegare un termine ormai desueto che, pur con la sua inevitabile approssimazione, secondo me rende bene l'idea: “comunismo". Pascoli, animali e terreni coltivati erano, infatti, di "tutti". Tanto che dopo qualche anno con il runrig i terreni venivano "girati" di famiglia in famiglia.

La storia di St Kilda in quest'ultimo secolo e mezzo ci parla di una comunità fortemente solidaristica e tenacemente attaccata alla tradizione, dove il baratto faceva aggio sulla moneta. Ma destinata a collassare a causa dell'accelerazione indotta da una mutazione culturale giunta dall'esterno. Prima da naviganti e pescatori, poi dai pastori protestanti, infine dai turisti, dai funzionari governativi britannici e da altri agenti di cambiamento: insegnanti, infermiere.

Provocando, infine, un inarrestabile processo di deculturazione… E la sua morte!

(…) Era una comunità marittima, sì, i cui membri preferivano però cacciare e catturare gli uccelli marini, che vi si trovavano in grandissima quantità.

E catturarli non era impresa facile. Anzi difficilissima e rischiosissima, che ogni volta metteva in gioco la vita degli “uomini-uccello”.

Sia quando scalavano le scogliere o i faraglioni, ma ancora prima. Quando dalla barca dovevano cercare di raggiungere le rocce, ad esempio degli Stacs.  

Così quello dell’uccellagione era mestiere che si imparava fin da giovanissimi. Una sorta di “rito di passaggio” all’età adulta (…)   

Martin Martin [nato a Skye, fu precettore nella famiglia dei MacLeod, proprietari di St Kilda. Nell’estate del 1697 accompagnò il ministro (del culto) di Harris, John Campbell, nell’annuale visita all’arcipelago. Scriverà la prima dettagliata relazione sulla vita nelle isolenel 1697 rilevò che “il loro principale nutrimento deriva dalle gigantesche colonie di uccelli marini, che popolano le scogliere dell’isola e i vicini faraglioni. Non solo raccolgono le uova di sule e di procellarie, ma catturano e mangiano gli stessi uccelli. Per fare ciò costruiscono corde che calano per centinaia di piedi lungo le scogliere di Hirta [la sola grande isola abitata (…) allora possedevano solo tre corde lunghe ciascuna 144 piedi [ca. 44 m] (…) si arrampicano a piedi nudi e, in fare ciò fin dalla fanciullezza, sviluppano caviglie e piedi, che bene si adattano al loro compito”.

Dagli uccelli traevano quasi tutto il loro sostentamento. Nel 1876 gli isolani presero 89.600 puffini per la carne e il piumaggio. Tramite il baratto, prima e la vendita, ben più tardi, riuscivano ad ottenere anche ciò di cui avevano bisogno, dal chiodo alla farina.

Degli uccelli si usava tutto: carne, piume, ossa, olio, ecc. Oltre alle uova, raccolte sulle pareti scogliose, i St Kildani si cibavano dei volatili, anche affumicati. L'olio delle procellarie serviva come prezioso combustibile, ma anche contro i reumatismi, gli arti pesti o doloranti, e come purga ed emetico (…)    

Tutto ciò sarebbe andato avanti per un lunghissimo tempo. Fino a quando, sul finire del XIX secolo, la domanda di tali generi cessò del tutto. Contribuendo, in tal modo, al tracollo finale della comunità.

Il denaro negli anni seguenti sarebbe arrivato nella comunità dai turisti di passaggio, dalla carità e (poco) dalla vendita di tweed, dal 1900 diventato l'unico prodotto di St Kilda.

GLI IMPRESSIONANTI FARAGLIONI DI STAC LEE, STAC AN ARMIN, BORERAY

   Quando si naviga intorno a questi grandiosi e terrificanti scogli rocciosi è praticamente impossibile immaginare come gli abitanti di St Kilda riuscissero a scendere a terra dalle loro barche.

Non solo usavano corde artigianali, ma uomini e donne riuscivano a scalare questi straordinari faraglioni. Portando poi via barili di uova e uccelli dalla sommità, fino al villaggio di Hirta.

Spedizioni che potevano durare anche diversi giorni. Per cui “uomini-uccello” (e donne) avrebbero dovuto pernottare dentro piccoli ripari (bothies) su quei giganteschi pinnacoli. 

Lo scoglio più grande [tanto da essere considerato un isolotto], Boreray, è un gigantesco cuneo. Verticale sui tre lati e molto scosceso, ma ricoperto d’erba sul quarto. Qui nel tempo furono costruiti numerosi cleitean per depositarvi temporaneamente quanto raccolto (uccelli, uova, ecc.).

Dopo che il gruppo di uccellatori toccava terra, la barca rientrava ad Hirta, per tornare a recuperarlo dopo diversi giorni.

 Ecco come si “approda” a Stac Lee
(Norman Heathcote, "Climbing in St Kilda", Scottish Mountaineering Club Journal, vol. 6, 5, maggio 190
1)

Stac Lee, anche se meno elevato dei due scogli, è il più impressionante dal punto di vista alpinistico. Poi, osservando con attenzione, meglio se (onde permettendo) con un binocolo, si può intravedere nei pressi della sommità, sulla sinistra, l’ingresso al bothy, che può accogliere solo un paio di persone.

NEL 1876 IL GIORNALISTA BRITANNICO JOHN SANDS SCALA, ASSIEME AGLI “UOMINI-UCCELLO” DI HIRTA, L'ISOLOTTO DI BORERAY. ARRIVANDO FINO A 243 METRI DI ALTEZZA  

 Il giornalista John Sands, ritornato a St Kilda nel 1876, racconta: “il 29 giugno andai con un gruppo di diciotto, tra uomini e ragazzi, con la nuova barca [che aveva fatto costruire per loro] all’isola di Boreray. Tutti gli uomini, meno due, ai quali fu lasciato il compito di prendersi cura dell’imbarcazione, si arrampicarono sulla scogliera. Fui tentato di unirmi a loro. Con il capo di una corda attorno alla cintola, tenuto da un uomo, che mi precedeva, mi arrampicai su tali sentieri, che si possono vedere solo negli incubi. Pensai che fosse meglio non guardare in avanti troppo lontano, ma fissare l’attenzione al terreno sotto i piedi. A volte dovevo ringraziare la mia guida, che toglieva di torno qualche difficile pezzo. Così che fui in grado di arrivare in cima. L’altitudine era probabilmente di 800 piedi [243 m], anche se le più alte rocce di questa isola superano il migliaio [304 m]. Alcune scogliere erano bianche per le sule. Tutti gli uomini si sparpagliarono, calandosi lungo i dirupi, per catturare le procellarie. Io fui lasciato sotto la sorveglianza di un giovane chiamato Callum Beag, o “Piccolo Malcolm”, che terrà sempre questo nome anche se crescerà fino a sei piedi [1,82 cm] (…) È tradizione dei St Kildani inviare ogni anno un gruppo di giovani donne nell’isola, per catturare puffini per le loro piume. Durante la mia prima visita [1875] sono andato con un gruppo del genere a Boreray e le ho viste al lavoro. Sollevando i piccoli dai buchi nella torba, i curiosi uccelli (chiamati Tammie Nories in alcuni posti) hanno bisogno di essere scansati per essere catturati. Poi bisogna essere molto attenti nel tenerli, perché le loro beccate sono molto dolorose. Conoscendo le loro abitudini, le donne portano i cani, che allarmano i puffini, così da catturarli non appena svolazzano fuori dai buchi (…) Le ragazze collocano le corde di peli sul terreno, tenute ferme ad entrambi i capi da pietre. Cappi di crini di cavallo sono aggiunti alla corda, in modo che gli uccelli, che in numero incredibile frequentano l’isola, vi mettano le zampe. Così in un giorno alcune ragazze riescono a catturare fino a 4-500 puffini. Le giovani donne rimangono tutte sole nell’isola per circa tre settimane. Lavorando fino a che cadono addormentate. Ognuna ha con sé la Bibbia in Gaelico, che tutte leggono facilmente. Dormono con i vestiti che hanno indossato durante il giorno”.

……

Gli ultimi 36 abitanti del villaggio di Hirta furono evacuati dalla Marina britannica il 29 agosto del 1930:

Era un giorno foschioso, ma tranquillo.

Dalla mattina presto l’HMS Harebell, la nave che doveva trasportare gli isolani nelle nuove case, era all’ancora nella Village Bay. Con le pecore e le mucche via e i cani morti, l’evacuazione della gente poteva iniziare.

Si impacchettarono le ultime cose, i beni portati giù al molo, le casse caricate sull’Harebell.

La maggior parte dei mobili, letti, sedie, telai, come pure le barche, gli attrezzi agricoli e per l’intrappolamento degli uccelli doveva essere lasciato

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NELL'ARCIPELAGO DEGLI “UOMINI-UCCELLO” DI ST KILDA. VITA E MORTE DI UNA REMOTA COMUNITÀ' SCOZZESE

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lunedì 24 giugno 2024

156. LA "VALLE DELLA MORTE", UN’IMMENSA PIANURA DI SALE E FANGO SOTTO IL LIVELLO DEL MARE. CARATTERIZZATA DA UN CALORE INSOPPORTABILE, DAL CONTINUO SOFFIARE DI UN VENTO IMPETUOSO, DA ALTE DUNE DI SABBIA SAHARIANE. DOVE IL “MIRAGGIO” DI UN CASTELLO NEL DESERTO SI PUO’ IMPROVVISAMENTE MATERIALIZZARE DAVANTI AGLI OCCHI INCREDULI DEL VIAGGIATORE. DA: NEL WEST ATTRAVERSO LE MONTAGNE ROCCIOSE, IL SUD-OVEST, I DESERTI DELLA CALIFORNIA MERIDIONALE

 

 La Death Valley dal celebre "Zabriskie Point"
(© Franco Pelliccioni) 

Il deserto Mojave, nella California meridionale, è solo di passaggio nel mio viaggio in direzione di uno dei più incredibili luoghi della terra.

Un luogo che si trova in parte al di sotto del livello del mare, come il Mar Morto, e che nei mesi estivi rasenta - spesso superandole - temperature Sahariane (…)  

 A non molta distanza dal confine con lo Stato del Nevada, al di là di alcune montagne, dopo aver superato il paese di Shoshone e la città morta della Death Valley Junction, autentico biglietto da visita dell'area, arrivo infine nella Valle della Morte.

Resa celebre da numerosi films, non solo western. E uno sguardo d'insieme si ottiene proprio da Zabriskie Point, stupenda terrazza naturale resa famosa da un vecchio film di Antonioni.

Da qui posso avere un'idea della vallata longitudinale racchiusa dalle catene parallele dell'Amargosa e Panamint. Un'immensa pianura di sale e fango, intercalata da pozze di acque salmastre e imbevibili, (…) dall’aspetto indubbiamente lunare e un po' sinistro...

È questo un incredibile habitat, che può essere anche estremamente pericoloso. Specialmente durante i caldissimi mesi estivi.

Il record è del 1913: 55° all'ombra (…) Qui ci sono le temperature più alte del globo. Il calore al suolo raramente è al di sotto dei 65° C, ma può toccare anche i 93°. E i rigori di questo habitat si sono fatti sentire. Trentadue morti nel decennio a cavallo tra il XIX e il XX secolo. Non sempre a causa di qualche sfortunato incontro con una delle diciotto specie di serpenti esistenti, tra cui il velenosissimo serpente a sonagli.

 Quest'ambiente così "estremo", dal 1933 National Monument, era terra degli Shoshoni, che la chiamavano Tomesha, "terra a fuoco". Indiani che durante i mesi estivi si spostavano verso le zone montuose, per tornare nella vallata nel corso dei mesi invernali. Un'alternanza stagionale dettata dal clima, ma anche dalla disponibilità di acqua e cibo

 (…) Nel 1849 giunsero in questi paraggi i primi europei, nel corso del loro tragitto verso i giacimenti d'oro della California, appena scoperti.

Ventisette carri di una carovana decisero di effettuare una scorciatoia attraverso la vallata. Solo uno di essi riuscirà ad uscirne indenne. Dopo due mesi di enormi sacrifici e sofferenze, fatte di "fame, sete e un terribile silenzio", nonché qualche morto. Un'impresa così tremenda che, una volta messisi in salvo oltre le montagne, i superstiti con estrema efficacia battezzarono la regione come: la "Valle della Morte". La stessa incisività che ritroviamo in numerosi toponimi regionali: Funeral Mountains, Deadman Pass. Oltre a quelli che si riferiscono all'Inferno, al Diavolo o al nostro sommo poeta Dante.

 Tutta una serie di interessanti peculiarità attende ora il visitatore, che vi si è addentrato. Da un'autentica oasi, come Furnace Creek, dove prendo alloggio nel ranch, al cratere perfetto dell'Ubere (…) che porta il nome di una donna Shoshoni, che viveva nei pressi di quello che era sempre stato denominato: Duhvee'tah Wah'sas, il “cesto di Duhveetah”.

E ancora: il "Campo da Golf del Diavolo": ruvidi pinnacoli di cristalli di sale, alti fino a sessanta centimetri, che si allunga in una sezione della piana

Ecco quindi Harmony Borax Works, le miniere abbandonate di borace, il cui filone venne scoperto nel 1873, unitamente ad uno d'argento. Vi lavoreranno anche i cinesi tra il 1882 e il 1888

(…) Da non sottovalutare anche una visita alla zona (…) delle dune di sabbia "sahariane", alte fino a ventiquattro metri che, fin dai tempi di Rodolfo Valentino, hanno visto ritrarre su celluloide le infinite avventure di eroi e predoni del deserto.

Contribuendo ad alimentare clichés stereotipati ed eurocentrici su indomiti legionari, avventurieri senza scrupoli, sceicchi "bianchi", tagliagole senza pietà Tuareg.

E, come altrove durante tutto il viaggio, il vento continuerà a soffiare impetuosamente ad intermittenza. Sollevando nella Valle, visibili anche a parecchi chilometri di distanza, i temibili "Dust Devils"(…)

 E quanto ai miraggi? Qui non sono riusciti a fotografarli, come in Sudan o in Tunisia. Ma poco importa. Poiché ne esiste uno "reale", non immaginario… Comodamente osservabile nell'angolo nord-orientale della vallata, ventiquattro ore su ventiquattro.

In effetti, subito dopo una curva in salita nel Grapevine Canyon, a 914 metri d'altezza, l'improvviso aprirsi del paesaggio fa contemporaneamente apparire un'irreale e fantastica costruzione.

Un castello, ma sì... Ha torri merlate e ha un aspetto tra il fiabesco, il moresco e l'indubbio kitsch. Che solo l'eccentricità sfrenata di alcuni americani poteva pensare di realizzare in questo luogo solitario, sperduto e remoto, oltre sessanta anni addietro.

L'originale progetto prevedeva una torre dell'orologio, una piscina, quattordici camini e quattordici bagni, quattro cucine, una pompa di benzina e un impianto solare di riscaldamento dell'acqua.

È il castello di Scotty, alias Walter Scott (1872-1954). Cow boy del Kentucky, che prese parte al celebre Buffalo Bill Wild West Show anche durante la sua tournée europea.

Johnson e Scotty davanti al castello nel 1934


 Costruito tra il 1921 e il 1931, non fu mai ultimato (…) rimarrà solo un "castello nel deserto".

Nel 1970 lo acquisirà il National Park Service.

DA: Nel West: Attraverso le Montagne Rocciose, il Sud-Ovest, i deserti della California meridionale, E-Book, versione cartacea a colori (I e II ediz.) e in bianco e nero: 116 pp., 34 note, 76 foto (50 sono mie) 


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155. L’INCREDIBILE CROCIERA NERA DEL 1924-25: UN VAGABONDAGGIO NEL CONTINENTE AFRICANO SENZA UGUALI! DA: GRANDI RAIDS AUTOMOBILISTICI DELLA STORIA: QUANDO L’AVVENTURA SI FA LEGGENDA. LA PECHINO-PARIGI E LE “CROCIERE” CITROËN, TRA AFRICA, ASIA E AMERICA DEL NORD

 

 L’itinerario (National Geographic Magazine

(…) Citroën decide di giocare “grosso”. Il solo settore sahariano, il 
deserto, non è abbastanza vasto per sperimentare la sua sete di successo, di conoscenza, di pubblicità. Così, una volta brillantemente “archiviata” la transahariana, desidera che la futura destinazione delle sue macchine sia il continente africano. Sì, avete capito bene: proprio l’intero continente! Da nord a sud, dall’Algeria alla punta estrema del Capo di Buona Speranza.

Non solo… Perché va attraversato fin sulla costa dell’Oceano Indiano, e oltre. Per spingersi fino in Madagascar.

Un progetto del tutto audace, estremamente ambizioso, certamente temerario, che rasenta l’impossibile.

Ancora oggi, sembra incredibile possa essere stato realizzato da un manipolo di uomini, sia pure coraggiosi, pronti a tutto, sperimentati, competenti! Guidati sul campo dai soliti Georges-Marie Haardt e Louis Audouin-Dubreuil ed eterodiretti da André Citroën da Parigi.

 La Crociera Nera avrà una straordinaria ricaduta mediatica.

Anche perché il progresso della spedizione sarà attentamente seguito dal pubblico francese, giorno dopo giorno, grazie al T.S.F., il telegrafo senza fili.

Le finalità della Crociera Nera

 La prima, ovviamente, risiede nel pubblicizzare “l’attuale stato dell’arte”, cioè la superiore tecnica automobilistica delle macchine targate Citroën. In grado di affrontare, uno dopo l’altro, il caleidoscopio di ostacoli naturali che si troveranno davanti.

Perché dovranno cimentarsi su ogni sorta di rilievo (sabbia, pietraie, ecc.). Superando difficoltà di ogni genere, come quelle rappresentate dal guado di fiumi, l’attraversamento degli uidian sahariani, di zone paludose, boscaglie, savane, giungle e “chi più ne ha, più ne metta”…

 Un secondo obiettivo concerne l’esplorazione e la documentazione (scritta, fotografata, filmata) di terre e popoli spesso ancora sconosciuti al grande pubblico. In grado a loro volta di attrarre irresistibilmente l’interesse dei francesi alla ricerca del nuovo, del “diverso”, dell’esotico, forse anche del misterioso, che si sta sviluppando in Francia all’indomani della Grande Guerra.

D’altronde non è compito della Metropoli quello di portare progresso e civiltà, dove dominano i tradizionali usi e costumi africani?

In tal modo il pubblico transalpino sarà messo in grado di scoprire regioni dell’Impero coloniale (Africa Occidentale ed Equatoriale Francese) non altrettanto note, rispetto a quelle nordafricane e indocinesi.

Del resto l’Impero coloniale, già all’indomani della Grande Guerra, ha dimostrato come le sue immense risorse e la mobilitazione alle armi, e non solo, degli indigeni, siano state per la Francia di primaria importanza.

Tanto da stimolare un’opinione pubblica che, sul finire del XIX secolo, era stata più o meno indifferente alle grandi questioni coloniali. Mentre adesso le colonie attraggono, non solo avventurieri, esploratori e scienziati, ma anche imprenditori e uomini d’affari.

 Ecco perché nasce la Crociera Nera, in origine chiamata Citroën CentreAfrique. Raid che riuscirà ad appagare i desiderata di Gaston Doumergue, Presidente della Repubblica, che intende stabilire un regolare collegamento intercoloniale fin nella Grande île, la lontanissima isola del Madagascar.

Partendo da Colomb-Béchar, in Algeria, e giungendo fino a Tananarive.

Inaugurando una regolare linea automobilistica, che oltrepassa la colossale barriera naturale del Sahara, che si frappone tra Nord Africa e le altre regioni dell’Impero Coloniale francese.

I partecipanti

 Alla fine la missione sarà aggettivata come economica, umanitaria, scientifica e culturale. 

In effetti si tratta di un’autentica esplorazione scientifica dell’Africa, alla quale parteciperanno studiosi scelti dalla Società Geografica Francese, dal Museo di Storia Naturale di Parigi, dal Ministero delle Colonie francesi, dal sottosegretario all’Aeronautica, che offriranno anche il loro supporto.

 Il gruppo è composto da sette esploratori e nove meccanici.

Oltre a Georges-Marie Haardt e Louis Audouin-Dubreuil, con loro c’è anche Henri Bettembourg (1882-1926), comandante della fanteria coloniale e cartografo.

Gli studi etnografici sono affidati al pittore Alexandre Jacovleff. Riporterà 300 disegni e 100 dipinti.

Il pittore russo Jacovleff all’opera nel villaggio Mangbetu del capo Ekibondo, Congo Belga

L’aspetto zoologico e patologico è compito del medico-tassidermista Eugène Bergonier, già professore nella Scuola di Medicina dell’Africa Occidentale Francese (…).

Le ricerche geologiche e mineralogiche, nonché la gestione meccanica della spedizione, si delegano all’ing. Charles Brull.

La parte cine-fotografica viene svolta dal regista Léon Poirier (1884-1968) con l’operatore Georges Specht.

Giorno dopo giorno i due realizzeranno il diario della spedizione, la Crociera Nera”, film muto di oltre un’ora, che mostrerà agli spettatori entusiasti le bellezze dell’Impero.

In totale filmeranno 27.000 m di pellicole e scatteranno 8.000 foto di straordinario valore documentaristico ed etnografico. Così come desidera la Società Geografica francese, che ritiene che: “il compito più urgente che oggi come oggi spetta a tutti i viaggiatori sia di registrare con tutti i mezzi possibili, specialmente con la fotografia e il cinema, tipi antropologici e costumi”.

Da: GRANDI RAIDS AUTOMOBILISTICI DELLA STORIA: QUANDO L’AVVENTURA SI FA LEGGENDA. LA PECHINO-PARIGI E LE “CROCIERE” CITROËN, TRA AFRICA, ASIA E AMERICA DEL NORD

(E-Book e versione cartacea in bianco e nero - seconda edizione riveduta, corretta e aggiornata -, 113 pp., 81 note, 105 immagini)



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